La donna che canta | Un emblema dell’universo femminile. 

Il regista canadese Denis Villeneuve narra con grande maestria un dramma familiare d`ambientazione bellica (la guerra in Palestina negli anni Settanta). In seguito alla morte della madre Nawal (Lubna Azabal), due gemelli, Jeanne (Mélissa Désormeaux-Poulin) e Simon (Maxim Gaudette), scoprono, alla lettura del testamento da parte del notaio Lebel (Remy Girard), presso cui lavorava la madre, di avere un fratello e un padre ignoti nei territori palestinesi. Nawal, nel testamento, chiede ai due ragazzi di ritrovare i due uomini, senza dare nessuna indicazione, e di consegnar loro due buste chiuse. Solo quando avranno fatto ciò, i due fratelli dovranno aprire una busta a loro indirizzata, contenente l`ultimo saluto di Nawal, e potranno apporre un nome e una lapide sulla sua tomba, come segno di una promessa mantenuta. Dei due, solo Jeanne decide di intraprendere questo viaggio difficile e doloroso, mentre Simon vuole solo dimenticare la madre e ritiene che questo evento sia l’ultima stranezza di una madre misteriosa e distante. Solo successivamente l’amore per la sorella lo porterà a seguirla insieme al notaio Lebel nella terra dei loro antenati. La ricerca dei fratelli procede parallelamente ai flashback della vita di Nawal, sviluppando così una narrazione alternata.  I pochi indizi offerti dal regista in alcune inquadrature porteranno i due giovani alla lenta composizione di un mosaico che farà loro scoprire un passato segnato dalla guerra e dalla violenza, viste attraverso gli occhi di una donna che non si è mai rassegnata all’orrore e alle ingiustizie: anche quando le è stato tolto tutto non ha perso la speranza e ha reagito urlando un canto liberatorio, tanto da essere chiamata da tutti “la donna che canta”. Una donna, quasi emblema di quell’universo femminile fatto di donne coraggiose e pronte a tutto, ma anche di madri amorose e disposte al perdono.
 
Già in un suo film precedente, Polytechnique, Villeneuve era riuscito a realizzare un’ottima pellicola, in cui aveva dato un tocco personale ad una pagina oscura della storia canadese recente (la strage del 1989 al Politecnico di Montréal). Con La donna che canta è andato anche oltre, sia come tecnica di regia sia come profondità di storia. Non è un capolavoro, ma si avvicina ad esserlo. Naturalmente bisogna dare i giusti meriti a Wajdi Mouawad cha ha scritto e diretto la pièce teatrale (titolo originale Incendies) di cui il film è un adattamento. Si nota sin dall’inizio che Villeneuve è particolarmente ispirato e risulta fondamentale il lavoro del direttore della fotografia. Lasciano un po` perplessi quelli che al principio sembrano i due protagonisti del film: i due gemelli, che presto si riveleranno figure di contorno rispetto al fulcro di tutto, che è la loro madre Nawal.
 
Villeneuve ci accompagna gradualmente nell’inferno della guerra e indaga i rapporti umani contaminati e spezzati dall’orrore che si trascina fino ai giorni nostri, e che non può essere dimenticato. Anzi! Va compreso e magari perdonato. L’acqua in cui i gemelli nuotano in una delle scene finali, spegnendo l’ultimo incendio della loro anima, opererà la catarsi in una simbolica “purificazione”. Un racconto, quindi, tra presente e passato, gestito magistralmente da una sceneggiatura non lineare, ma perfetta negli incastri narrativi. Anche qui l’ossessione che il regista ha per la matematica è presente. Infatti, con il rigore di una formula matematica, il film, che si era aperto con il primo piano di un ragazzino rasato dai miliziani palestinesi e con il suo sguardo in macchina pieno di rabbia e purezza, si conclude con la soluzione di questa tragedia. Ma anche se il mosaico si è completato, le logiche matematiche si riveleranno inadatte a spiegare quelle del mondo: 1+1 non sempre fa 2, e odio, violenza e vendetta possono essere combattute solo con il sentimento e con l’amore dell’uomo verso i suoi simili.
 
Federica Guido