L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor
«La felicità è un sistema complesso, ma scegliere un bel film è più facile di quello che sembra. Andate a vedere questo!» consiglia Francesco Bruni su Facebook, e certo c’è da tenere in conto un giudizio così autorevole, dettato da autentica stima nei confronti di Gianni Zanasi, cineasta di Vignola, classe 1965. D’altro canto il film, passato al festival di Torino e ora in sala targato Bim, è generalmente piaciuto ai critici, che l’hanno trovato profondo, inventivo, originale, ben girato e recitato. Leggere per credere la collega Marzia Gandolfi su MyMovies: «Eredità, tradizione, continuità, c’è tutto questo nella nuova commedia di Gianni Zanasi. “La felicità è un sistema complesso” cerca nuovi equilibri ma è nello squilibrio che trova il suo punto di forza e di attrazione, avvitandosi intorno al suo protagonista, che stima debiti e crediti di una vita».
E tuttavia, pur provando a capire, non riesco a condividere tanto entusiasmo. Naturalmente auguro al film un buon successo in sala, se non altro perché prova a distinguersi, in un magma fangoso di filmetti e filmacci italiani pure pretenziosi, per linguaggio e fantasia, mettendo al centro della storia, ad alto tasso simbolico, un mestiere che forse non esiste.
«Io convinco dei dirigenti irresponsabili a mollare, gente che al massimo può organizzare un torneo di playstation» sentenzia Enrico Giusti, cioè Valerio Mastandrea, un campione nel suo ramo. Lui lavora, come intermediario, per una società che acquista aziende in crisi e le tritura a piacimento: lesto a conquistare la fiducia degli eredi azionisti, per lo più incapaci o sfaccendati, Enrico trova sempre il modo di liquidarli in modo da lasciare mano libera ai suoi odiosi capi. Che non stima affatto, ma per i quali si impegna al massimo, ben retribuito, nell’illusione di sanare una ferita profonda, un trauma infantile, legati al padre bancarottiere scappato in Canada. Insomma, avete capito: l’uomo, scaltro e multiforme, capace di travestirsi con improbabili parrucchini e di ballare anche dodici ore di seguito se c’è da convincere qualcuno, non ne sbaglia una. Finché il destino non lo costringe a misurarsi, lui così imperturbabile, solitario e immoralista, con una torsione imprevista. Prima si ritrova in casa la ragazza israeliana di suo fratello Nicola, un Peter Pan che si rifiuta di crescere. E subito dopo deve fare i conti con due fratelli trentini, lui di 18 anni e lei di 13, ai quali la morte improvvisa dei genitori in un incidente d’auto ha “regalato” il comando dell’azienda di famiglia. Comando più formale che sostanziale, visti gli avidi avvoltoi di famiglia in combutta con la società per cui lavora Enrico, ma in ogni caso i due ragazzi rischiano di diventare un ostacolo ai licenziamenti e alla delocalizzazione, e quindi bisogna far intervenire l’esperto…
«Sono fiero del mio lavoro» ripete Enrico, il quale si illude di agire per il Bene pur servendo il Male. E qui sta il dilemma morale, vogliamo dire etico, che sta alla base del lungo racconto, punteggiato di digressioni umoristiche, corse in bicicletta, tuffi in piscina, dialoghi bizzarri e aforistici, passi di ballo alla Michael Jackson, situazioni buffe e contrappunti tragici. Tutto molto metaforico, astratto, filosofeggiante, “effettato”, per smottamenti progressivi, a partire dal titolo a chiave. Più complicato che complesso. Viene da pensare a “Volevo solo dormirle addosso” di Eugenio Cappuccio o a “Tra le nuvole” di Jason Reitman; a dirci il progressivo sbriciolarsi esistenziale di un uomo metodico e anaffettivo che si ritrova a fare i conti con il cosiddetto fattore umano rappresentato dalla giovane donna straniera e da quei due fratelli decisi a non svendersi.
Tra Zanasi e Mastandrea, sin dai tempi di “Non pensarci”, esiste una sintonia emotiva che si traduce anche in una sorta di collaborazione artistica più profonda; non di meno, lasciato a briglia sciolta, l’attore romano si prende tutta la scena, esagerando in facce e faccette, battute e battutine, dentro una recitazione sorniona che cerca l’applauso e probabilmente lo trova. Dell’uso sconsiderato delle musiche e delle canzoni in inglese preferisco non dire: è un classico italiano, nessun regista sembra rendersene conto, purtroppo, sicché la partita è persa comunque.
Michele Anselmi