L’angolo di Michele Anselmi

La gag è un po’ sempre la stessa. Prima di illustrare il cine-menù, il direttore artistico Antonio Monda si rivolge agli astanti, per lo più giornalisti e gente del ramo, per chiedere: “Chi di voi era al festival di Toronto? E a Londra? A San Sebastiano? A New York?”. In genere, tra tutti, non si raggiunge il numero di cinque persone. Monda appare soddisfatto, nulla aggiunge e comincia a srotolare il programma.
Il sottotesto è semplice: la gerarchia internazionale dei festival è una roba che appassiona solo i giornalisti, la gara delle anteprime assolute è una sciocchezza, una fisima da addetti ai lavori, una sfida tra direttori di festival. Può darsi. Tuttavia, pochi minuti dopo, Monda precisa con cura che alla 14ª Festa del cinema di Roma (17-27 ottobre) ci saranno “37 anteprime mondiali, 3 internazionali, 12 europee, 18 italiane”. Contano o non contano, allora?
Nell’attesa di capire se la Festa sia “donna”, come piace a Monda, o “adolescente”, come piace a Laura Delli Colli, la cronaca registra il pienone in Sala Petrassi per la tradizionale conferenza stampa di presentazione. Per fortuna da qualche anno non parlano più i politici, il palco è appannaggio, appunto, del direttore e della presidente, in uno scambio di complimenti reciproci che un po’ stucca ma forse è inevitabile.
Tramontata l’ambizione di Marco Müller di trasformarla in “festaval”, suo il neologismo, la kermesse quirite che fu creata da Walter Veltroni e Goffredo Bettini nel lontano 2006 è diventato un gustoso contenitore, diciamo un rassegna multistrato dove si ammicca al nazional-popolare, si cercano i divi per esporli sul red carpet e farli incontrare col pubblico, si punta sull’affondo colto, sul riflesso nostalgico, sul mix tra musica, cinema e letteratura. Ovviamente non ci sono giurie e premi, se non uno, quello, “democratico”, espresso dal pubblico sotto l’egida della Bnl.
La “divina” Greta Garbo, rigorosamente in bianco e nero nel manifesto ufficiale che la sdoppia, convive con le contraddizioni della modernità; da un lato il cinema piantato nel mito immortale, dall’altro il cinema che si interroga sul razzismo, la condizione femminile, la distruzione dell’ambiente, la condizione dei migranti. Il tutto per un totale di 25 Paesi partecipanti: mi pare un buon ventaglio internazionale di proposte.
Naturalmente è “The Irishman” di Martin Scorsese, coi suoi 209 minuti e il supercast formato da Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci (tutti e tre ringiovaniti al computer), il piatto più atteso. “Scorsese ha scelto Roma per presentare il suo film” gongola il direttore. Diciamo che Netflix, dopo essersi dissanguato spendendo oltre 150 milioni di dollari, ha scelto altri tre festival prima di darlo alla Festa di Roma; ma va bene così, sarà comunque un successo di pubblico e critica quando il filmone su Jimmy Hoffa & dintorni mafiosi passerà all’Auditorium il 21 ottobre. Qualche giorno dopo uscirà in alcuni “cinema selezionati”, ci si augura non troppo selezionati, e dal 27 novembre sarà su Netflix.
Si parte con “Motherless Brooklyn – I segreti di una città” di Edward Norton e si chiude con “Tornare” di Cristina Comencini. In mezzo tanti titoli, anche interessanti sulla carta, i più attesi dei quali, sul versante pop, forse sono: “Downton Abby” di Michael Engler, ispirato alla fortunata serie tv, “Hustlers – Le ragazze di Wall Street” di Lorene Scafaria, “Judy” di Ruper Goold, “Military Wives” di Peter Cattaneo, il documentario “Pavarotti” di Ron Howard, pure il tormentato “Il peccato” di Andrej Končalovskij su Michelangelo.
Tra incontri, retrospettive, ricordi dei defunti, omaggi, sfide tra critici, “riflessi”, “film della nostra vita”, pre-aperture, cotillon musicali, “l’impegno per il sociale e per l’ambiente” e divagazioni varie, questa 14ª Festa corrisponde a una visione esteticamente ecumenica, nella quale, com’è giusto che sia, Springsteen convive con Zeffirelli, i Negroamaro con John Travolta, Kore-Eda Hirokazu con Bret Easton Ellis. Dimenticavo: i due premi alla carriera andranno agli attori, entrambi statunitensi, Bill Murray e Viola Davis. Sulla loro bravura non ci piove.
Ci sarebbe da registrare, infine, di una frase sibillina sempre detta da Monda. “I nostri film vincono gli Oscar” ha scandito citando i casi di “Moonlight” e “Greenbook”; per aggiungere subito dopo: “Prima c’erano altri festival che facevano cose del genere”. Che significa? Se il riferimento è alla Mostra di Venezia, la frecciatina proprio non sta in piedi.

Michele Anselmi