La Festa di Michele Anselmi (1)

Valeva la pena di inaugurare la 13ª Festa del cinema con “7 sconosciuti a El Royale”? Dipende dai gusti. Uscito negli Stati Uniti il 12 ottobre e nelle sale italiane da giovedì 25 con la Fox, il film, applaudito all’anteprima per la stampa, è uno di quei noir un po’ cervellotici, ambientati al chiuso, molto parlati, pure verbosi, che hanno fatto la fortuna di Quentin Tarantino. Lo firma Drew Goddard, classe 1975, nato a Los Alamos, che ha scritto e diretto buone serie tv dopo aver debuttato con l’horror “Quella casa nel bosco”.
Sul modello di riferimento direi che non ci siano dubbi: il Tarantino di “Le Iene” e di “The Hateful Eight”, più qualche altra citazione sparsa, viene quasi pantografato da Goddard, in un gioco sfrenato di riferimenti storici, musicali, estetici, scenografici e cinematografici, fino al sanguinario show down finale.
Il gioco è scoperto, a tratti pure gustoso, se non fosse che il tutto dura più di 140 minuti, perché i capitoli, introdotti da altrettanti cartelli, sono tanti, e il regista-sceneggiatore si diverte, da un certo punto in poi, a mostrare la stessa scena da diversi punti di vista, un po’ per far vedere quanto è bravo e un po’ per complicare la scansione temporale.
Dopo un incipit virtuosistico in chiave di gangster-story, il genere appare quasi uno spunto per confondere lo spettatore, pur facendogli capire che in quel famoso hotel di lusso ormai decaduto, e strategicamente piazzato al confine spaccato tra California e Nevada, vicino al lago Tahoe, sta per succedere qualcosa di molto brutto (infatti il titolo originale recita: “Bad Times at the El Royale”).
In una fredda giornata del gennaio 1969, Richard Nixon ha appena preso possesso della Casa Bianca e parla in tv, arrivano alla spicciolata con le loro automobili quattro strane persone: una cantante soul piuttosto dimessa, Darlene Sweet; un prete avanti con gli anni, padre Flynn; un commesso viaggiatore dalla parlantina facile, Laramie Seymour Sullivan; una grintosa figlia dei fiori, Emily Summerspring. L’atrio sembra deserto, nessuno risponde al campanello, finché non appare un giovane custode, tal Miles Miller. Che cosa ci fanno lì quei quattro? L’albergo, non proprio come il motel di “Psyco” ma un po’ sì, ormai è fuori dai flussi turistici del gioco d’azzardo, sicché costa poco. Tuttavia gatta ci cova: infatti scopriamo subito che il commesso viaggiatore è un agente speciale dell’Fbi, spedito lì addirittura da Edgar J. Hoover per indagare su strani traffici sessuali (c’è un filmato scottante da recuperare).
Ci fermiamo qui, per non rovinare la sorpresa, anzi le sorprese: perché il film continuamente rilancia, inanellando colpi di scena e rivelazioni, antefatti e flashback, aggiungendo personaggi, fino a raggiungere il fatidico numero di 7 evocato dal titolo italiano.
Siamo proiettati, avrete capito, in una specie di fosco e sanguinario “kammerspiel” che attinge alle più diverse suggestioni: la paranoia del complotto e del “siamo tutti spiati”; il cinema come voyeurismo, pure come morte al lavoro; la follia delle sette alla Manson, la cattiva coscienza del Vietnam, i fantasmi della pedofilia, le intermittenze della memoria. Il tutto girato in pellicola e con lenti anamorfiche, per restituire la grana sontuosa e i colori smaglianti dei vecchi film, mentre sotto pulsano canzoni dell’epoca come “Hush” dei Deep Purple, “Hold On, I’m Coming” di Sam & Dave.
La battuta chiave del film? “A volte il ricordo di un uomo vale più dell’uomo stesso”. Non sapremo chi è il famoso uomo politico spiato e filmato durante un amplesso imbarazzante, ma la bobina è un po’ il McGuffin, cioè il pretesto, per citare Hitchcok, attorno al quale Goddard costruisce la sua parabola nerissima sui segreti inconfessabili della natura umana.
Francamente colpisce più la ricostruzione d’ambiente, maniacale e perfetta, che la prova degli attori, tra i quali Jeff Bridges, Dakota Johnson, Cynthia Erivo, Jon Hamm, Cailee Spainy e l’erculeo Chris Hemsworth. Tutti hanno fatto di meglio.

Michele Anselmi