Chissà se Diego Quemada-Diez, regista della pellicola La gabbia dorata, in uscita nelle sale italiane il prossimo 7 novembre, ha visto le dolorose e disumane immagini dei due barconi di recente rovesciati a Lampedusa. Perché il suo film, presentato alla 66ma edizione del Festival di Cannes nella sezione Un certain Regard e Miglior Film alla 43ma edizione del Giffoni, affronta proprio una storia di immigrazione.
Non siamo qui però nella culla del Mediterraneo, dove il numero degli immigrati morti con le nuove tragedie del mare è salito a cinquantamila, ma in Guatemala, nel cuore di una America Latina che sogna ancora il mito statunitense per affrancarsi dalla povertà e dalla miseria. Juan, Chauk, Sara e Samuel sono i giovani protagonisti di questa storia on the road, di questo viaggio verso l’individualismo e il benessere Made in USA che, invece, si conclude con la conquista dei valori di solidarietà, di fratellanza e di profonda amicizia. E se il leitmotiv musicale è “attraverso la frontiera ti sei perso”, questi giovani amici, invece, imparano a diventare più forti e solidali: quasi struggente è la scena che vede protagonista il coraggioso Juan, disposto a sacrificare la sua vita pur di liberare Chauk.
Per questa pellicola appartenente al cinema di frontiera, il confine, diversamente dalle altre pellicole che lo hanno affrontato, non è considerato solo come luogo desolato e desertico, ma come luogo di formazione e di crescita naturale per un essere umano. Rimane comunque la visione realistica, inevitabile e quasi scontata considerando la formazione del regista, assistente del direttore della fotografia di Terrà e Libertà di Ken Loach, che mantiene proprio nella scelta opaca dei colori quel lato documentaristico del cinema di finzione.
Alessandra Alfonsi