L’angolo di Michele Anselmi 

“Disco Boy” è titolo spiazzante, pure fuorviante, davvero non so quanto attrattivo, ma ci sarà una ragione se il regista tarantino Giacomo Abbruzzese, classe 1983, che oggi vive tra Parigi e Madrid, ha voluto intitolare così il suo lungometraggio d’esordio, tornato dalla Berlinale, dove era in concorso, con un premio alla notevole fotografia di Hélène Louvart. Il film, targato Lucky Red, esce domani giovedì 9 marzo nelle sale, e non saprei dire, con la pessima aria che tira per il cinema italiano, se riuscirà a costruirsi una sua nicchia di pubblico. Certo non è un film convenzionale: perché parlato in bielorusso, francese e inglese; perché ci sono voluti tre lustri per metterlo insieme sul piano produttivo; perché non è ambientato in Italia, anche se certe scene mi risulta siano state girate in Puglia.
Uno squattrinato bielorusso, Aleksei, scappa avventurosamente dal suo Paese con un amico, passando per la Polonia, con l’intenzione di arrivare in Francia e arruolarsi nella Legione Straniera. Lavoro rischioso, quello del soldato mercenario usato per operazioni “sporche”: ma si guadagna bene, puoi scegliere il nome francese che vuoi, nessuno ti chiede documenti e dopo cinque anni arriverà un passaporto ufficiale. L’amico non ce la fa, ma Aleksei riesce a entrare nella Légion, che non è più quella di film come “La Bandera – Marcia o muori”; lo spediscono in Nigeria, dove i guerrieri del Mend, ovvero “The Movement for the Emancipation of the Niger Delta”, hanno rapito dei manager francesi, ramo industria petrolifera che tutto inquina da quelle parti.
Il senso di “Disco Boy” arriva per gradi: Abbruzzese fa confluire le due storie, dapprima separatamente narrate, allo scontro cruciale, girato con effetto “termico”, come a raggi infrarossi, tra il legionario bielorusso e il capo nero dei guerriglieri anticapitalisti. Uno dei due ci lascia la pelle, sicché la scena si trasferisce a Parigi, in una strana discoteca dal sapore mistico, dove uno strano incontro con una ballerina rimetterà tutto in discussione…
Scandito dalla musica elettronica del dj francese Vitalic e fotografato a tratti come se fosse una sorta di viaggio lisergico, l’atipico film di guerra “vive” di suggestioni visive, di occhi di diverso colore, di riferimenti al conradiano “Cuore di tenebra”, di luci stroboscopiche, neon colorati, ellissi narrative, punizioni marziali e redenzioni morali. Se piace l’idea, vale il prezzo del biglietto.
I tre personaggi principali della vicenda, cioè Aleksei, Jomo e Udoka, sono incarnati rispettivamente da Franz Rogowski, Morr Ndiaye e Laëtitia Ky: tutto funzionali al clima dell’estrosa messa in scena, che forse deve qualcosa a Nicolas Winding Refn o forse no. Frase-simbolo: “Chi ha paura, resta a casa”.

Michele Anselmi