La Mostra di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor

 

Il musical, al cinema, è forse la forma espressiva più artificiosa che ci sia. Per questo molti la detestano, poco sopportando che all’improvviso un attore o un’attrice si mettano a cantare, magari dopo aver litigato o aver fatto l’amore; e molti invece l’adorano, trovando proprio in quell’artificio “romantico” un antidoto estetico a un certo realismo spompato dalla ripetizione.

Però gli applausi calorosi che hanno accolto al Lido di Venezia “La La Land” , sin dalla prima proiezione per la stampa, confermano che il direttore Alberto Barbera ha visto giusto nello scegliere il film di Damien Chazelle per inaugurare, in concorso, la 73ª edizione della Mostra. Chazelle s’è fatto conoscere per il curioso “Whiplash”, quasi un metaforico corpo a corpo sul tema della batteria jazz tra un allievo di talento e un insegnante tignoso; qui, ormai lanciato a Hollywood, può riprendere un ambizioso progetto abbandonato per mancanza di soldi e farne un musical a suo modo perfetto, per nulla adrenalinico, post-moderno e giovanilistico alla maniera di Baz Lurhmann, semmai di forte impronta cinefila, il riferimento d’obbligo è Jacques Démy e il suo “Les parapluies de Cherbourg” più che i classici di Vincente Minnelli, ma senza mai dimenticare, appunto, le strettoie dell’esistenza, gli ingorghi della condizione umana.

Non per niente “La La Land” (il titolo un po’ misterioso alluderebbe a Los Angeles, detta in gergo LA), parte proprio con un ingorgo di prima mattina, sotto il sole che già brucia: ma la rabbia degli automobilisti bloccati sull’asfalto si scioglie magicamente in un frastornante/acrobatico numero di ballo e di canto, costruito come un  piano-sequenza da gustare come un antipasto di quanto avverrà nelle prossime due ore di film.

«Ho voluto soprattutto raccontare una storia intima, ricca di sfumature, nello stile di un’epopea musicale in cinemascope e concentrarmi sui sentimenti: il primo rossore dell’innamoramento, il rimpianto di un’opportunità non colta, la speranza che un sogno possa finalmente avverarsi» spiega il regista. A parlare troppo di sogni si fa la fine di Gigi Marzullo, e tuttavia “La La Land” dribbla i rischi del sentimentalismo più esteriore e dolciastro, proprio in virtù di un retrogusto amarognolo, che è poi il tratto più intenso della storia.

«You can find that someone in the crowd» sentiamo cantare in quell’incipit virtuosistico, e noi sappiamo già che Mia e Sebastian, nonostante una pessima partenza, presto si troveranno nella folla. Grazie allo zampino del caso, alle giravolte del destino. Mia, ovvero la vibratile  Emma Stone, è un’aspirante attrice e drammaturga che campa facendo la barista dentro gli Studios della Fox; Sebastian, ovvero un malinconico Ryan Gosling, è un pianista di jazz, patito di Thelonious Monk e Kenny Clarke, costretto a suonare “Jingle Bells” nei ristoranti  di fronte a clienti distratti. Entrambi si sentono frustrati, incompresi, fuori posto. Il secondo incontro, fuori da quell’ingorgo, a una festa dove lui suona con una band ridicola, va meglio; il terzo, complice la visione in un cinema d’essai di “Gioventù bruciata”, sarà l’inizio di un sofferto rapporto amoroso, sospeso tra voli fantastici e delusioni cocenti, in luoghi topici della memoria cinematografica come l’Osservatorio Griffith.

Scandito dallo scorrere delle stagioni nel corso di un anno, ma con una sorpresa finale da non rivelare (il film esce il 26 gennaio con 01-Raicinema), “La La Land” è un musical toccante e benissimo recitato oltre che cantato, trapunto di chiaroscuri, dove la passione per un certo jazz fuori moda, la piccola ferocia dello show-business e la leggenda della “city of stars” cantata da Sebastian servono a Chazelle per parlare in fondo d’altro: della tenacia che serve per andare avanti e “sfondare” ma anche dei prezzi che si pagano, specie in amore, per non aver fatto la scelta giusta.

«Brindiamo ai cuori che soffrono, brindiamo ai disastri che combiniamo» suggerisce una delle canzoni composte da Justin Hurwitz, autentico co-autore del film, insieme al direttore della fotografia Linus Sandgren e al coreografo Mandy Moore. È un po’ questo, si direbbe, il senso ultimo di “La La Land”: oltre l’estasi e il dolore, quando la vita prende altre strade, non resta che provare a sorridersi ancora, un’ultima volta, prima di dirsi addio.

Michele Anselmi