Quando venne inventato, sul finire del XIX secolo, il cinematografo Lumière era soltanto una delle attrazioni fra le molte altre che la città offriva. Nella metropoli del flâneur non mancavano altri intrattenimenti, ma il futuro cinema, poteva contare su una forza attrattiva del tutto inedita per l’epoca. Il borghese cittadino, per la prima volta, vedeva di fronte a sé la propria immagine in movimento, che in maniera perfettamente mimetica, viveva di fronte a lui. Lo shock percettivo fu enorme. Se ci chiediamo invece che cosa sia il cinema oggi, non possiamo far altro che notare che – di nuovo – esso è un’attrazione fra tante, ma non gode più dell’autentica forza fascinatoria che aveva in origine.
Il motivo principale di questo slittamento, di questo autentico spegnimento della fiamma originaria della settima arte, potrebbe essere collegato alla perdita di contatti con il referente originale del cinema, con il suo primo e primario modello: il corpo umano. L’affermazione potrebbe risultare sconcertante, ma chiunque abbia coscienza di come si sia evoluta la storia del cinema non potrà che convenire con questa idea. Già Ejzenstejn, in Teoria generale del montaggio, non poteva fare a meno di notare come una delle forme privilegiate del cinema (la possibilità di montare le immagini fra di loro a creare nessi semantici di livello ulteriore) discendesse direttamente dall’idea del corpo umano smembrato e ricomposto (il cineasta sovietico alludeva in particolare al mito di Dioniso).
Anche qualora si volesse abbandonare il terreno della teoresi per verificare sul campo la bontà di questa idea, le cose non sarebbero troppo diverse: il cinema delle origini era anche fisicamente connesso allo spettatore, paradossalmente a causa di una tecnica ancora imperfetta. Come si sa, perché il nostro occhio colga lo scorrimento dei fotogrammi come un puro flusso, la velocità deve essere di 24 fotogrammi/s; le realizzazioni tecniche dell’epoca non raggiungevano del tutto questo risultato e ciò causava uno sfarfallio dell’immagine, alla lunga anche doloroso. Questo “errore” consentiva però allo spettatore di rendersi conto di ciò che aveva di fronte e di avere uno sguardo diverso verso quelle immagini, di essere parte di un processo di formazione di significato in cui oggi, purtroppo, non si ritrova più (e non sarà un caso che molti autori di cinema sperimentale abbiano lavorato proprio in questo senso, per ristabilire il legame “fisico” fra uomo e immagine).
Un altro possibile esempio ci riporta alla figura di uno dei primi registi, il francese Georges Méliès. Applicando nei suoi film i trucchi del prestigiatore, Méliès ha aperto la strada allo sviluppo del montaggio, gettando le basi per la comprensione di un fenomeno capitale nel cinema. Nei suoi lavori, però, il montaggio è ancora visto come uno strumento magico, come un incantesimo che trasforma realmente le cose. Così, in L’uomo con la testa di gomma, lo spettatore dell’epoca era portato a credere che realmente la testa di questo pioniere si stesse ingrandendo a dismisura. Il soggetto preferito dei giochi magici di Méliès (ritratto in maniera interessante nel recente Hugo Cabret di Scorsese) è sé stesso: egli sottopone il suo corpo a tutta una serie di modifiche, amputazioni e moltiplicazioni per ammaliare lo spettatore con la sua abilità di cine- prestigiatore.
C’è però anche un elemento fortemente paradossale in tutto questo: la stessa concezione di montaggio veicolata da Méliès, che faceva interrogare gli spettatori su quello stesso rapporto uomo-immagine che oggi si cerca disperatamente di salvare, ha condotto (tramite la mediazione di un uomo pragmatico come Porter), alla creazione della più grande macchina anestetizzante della storia delle arti figurative: il cinema cosiddetto narrativo.
Oggi la situazione è ancora più frammentata, dal momento che l’aggiunta di nuove forme tecnologiche spettacolarizzanti (come ad esempio il 3D) non fa altro che amplificare l’effetto analgesico delle immagini filmiche, che invece dovrebbero stimolare plurisensorialmente lo spettatore. Il cinema è sempre stato, per un certo numero di autori, una macchina per raccontare storie, ma questo ne trascende in parte le potenzialità: il cinema, realizzazione estetica del mezzo tecnico noto come cinematografo, è un generatore di mondi possibili, veicola valori, può mutare la concezione che l’uomo ha di sé stesso e del mondo che lo circonda. Il problema connesso allo sviluppo del cinema odierno è forse il suo andare in un’unica direzione: quella di proporre storie che annebbiano i sensi degli spettatori e ne anestetizzano le facoltà di riflessione. Sarebbe necessario che il production system, che è andato configurandosi dagli anni Ottanta in poi, cominciasse a interrogarsi sulle conseguenze a lungo termine per la qualità dei prodotti filmici; certamente la fuga degli individui dalle sale non può essere risolta tramite il progressivo sviluppo di tecnologie che favoriscono un’esperienza immersiva ma obnubilante.
Giuseppe Previtali