Territori segreti e rappresentazioni fantastiche | Isole misteriose tra schermo e parola

Forme di pretesta contro la società, scenari fantastici e “mondi perduti”: sembrano punti distinti ma, riuniti tra loro, configurano il percorso di una mappa poco segreta, una linea direzionale tracciata nel segno del binomio isola-cinema. Fin dai tempi del primo “King Kong” (Merian C. Cooper, Ernest B. Schoedsack, 1933) sembra che la rappresentazione audiovisiva della relazione uomo/mostro abbia consolidato i suoi nuclei semantici proprio sull’onda del simbolismo. Un pezzo di terra bagnato dall’acqua, staccato dalla terraferma ma non privo di contatti con essa, si è prestato a divenire occasione di scoperta e pretesto di accrescimento per l’individuo al punto che adesso risulta impossibile perfino capire quando tutto ebbe inizio: è proprio nell’isola tropicale del Teschio che un regista e la sua troupe scoprivano l’esistenza di un “dio-scimmione” gigantesco (trasferito poi a New York, come si ricorderà dalla sequenza cult dell’Empire State Building), la sola “bestia” della storia del cinema sconfitta letteralmente dalla sua bella.

Tratto dal soggetto del giallista Edgar Wallace, questo film divenne uno dei primi classici del genere d’appartenenza e rappresentò il fulcro del dibattito sul simbolismo erotico oltre che un valido modello di ispirazione per i successivi remake targati USA (si pensi al “King Kong” di John Guillermin del 1976 con Jessica Lange o alla rivisitazione di Peter Jackson con Naomi Watts nel 2005). È noto che la fama del film sia imprescindibile dal lavoro di Willis O’Brien su quegli effetti speciali che agli occhi di uno spettatore di oggi risultano “primordiali”: la differenza salta agli occhi alla luce del confronto con gli eredi di questa tradizione. Immediato è il collegamento con “Jurassic Park”, capolavoro pluripremiato della suspance fantascientifica firmato da Steven Spielberg nel 1993. L’isola c’è e racchiude un mondo di affascinanti significati segreti che si sovrappongono magistralmente a quelli “emersi in superficie” attraverso un uso sapiente della parola: Isla Nubar, in Costa Rica, è il luogo dove sorge uno specifico parco a tema generato da un semplice segmento di DNA di dinosauri estratto da un fossile. Per verificarne la sicurezza sono chiamati all’avventura un paleontologo – strategicamente amante della specie protetta ma in pessimi rapporti con i bambini – la sua fidanzata e collega, un matematico e i due piccoli nipoti dell’anziano imprenditore che finanzia il progetto della struttura. Mettendo in campo la novità della genetica, questo film tratto dal best seller di Michael Crichton non è che una splendida dimostrazione del fatto che cinema spettacolare e riflessione sull’esistenza rappresentano due lati della stessa medaglia. L’atmosfera inquietante si lega indelebilmente alle paure più intime dell’uomo, ai limiti del singolo e agli scontri con l’altro, questioni che per decenni hanno offerto spazio di indagine all’arte e che affondano le fondamenta nel solido palazzo della letteratura del tardo Ottocento.

Ad un tratto, mentre ne osservavo i gesti grotteschi e inspiegabili, capii chiaramente per la prima volta che cos’era che mi urtava in loro, che me li faceva sentire nello stesso tempo completamente estranei e stranamente familiari, sensazioni davvero opposte e incompatibili”. (…) Come emerge da queste parole, mostri e isola si legano in un amalgama perfetto anche sulla carta, all’interno di un romanzo scritto da Herbert George Wells nell’anno di nascita convenzionale della settima arte: “L’isola del Dottor Moreau” è una sorta di sfida agli errori della società, un attacco feroce che l’autore porta avanti attraverso le descrizioni di un folle dottore approdato sull’isolotto di Noble e delle sue spaventose creazioni. Senza dubbio “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde” di Stevenson e i racconti macabri di Edgar Allan Poe (o forse anche l’improbabile lettura del “Robinson Crusoè” di Daniel Defoe) devono aver suggestionato la fantasia di Wells; tuttavia è proprio sulla scia di una nuova impronta fantastica che trapela la potenza metaforica dell’opera, la sua caratteristica connotazione di “testimonianza” dello scontro di classe e di “denuncia” dell’ambiguo rapporto tra bisogno e necessità.

Allo stesso modo di quanto ribadito in “Avatar” (James Cameron, 2009), dove effetti speciali e isola raggiungono il massimo grado di “apoteosi del progresso”, il film del 1976 con Burt Lancaster che dal romanzo Wells trae ispirazione ha molto insistito sulla resa audiovisiva del rapporto con il diverso, sebbene non riuscì del tutto nell’intento. È forse al romanziere francese Jules Verne che dobbiamo però riconoscere un ruolo da capostipite e il merito di aver incastrato i primi pezzi del puzzle: alla sua produzione si deve lo sviluppo di un potente immaginario legato al tema dell’isola e del naufrago, concetti che Verne declina in un preciso “contesto di americanità”. La storia del suo più celebre romanzo prende il via dalla fuga di un gruppo di naufraghi e dal loro approdo su un isola al Sud del Pacifico che chiameranno “Lincoln” in onore del presidente: i cinque protagonisti sopravvivono imparando a produrre fuoco, ceramiche, mattoni e una nave in grado di affrontare il mare. L’elemento dell’orango ritorna (addomesticano una scimmia di nome Jupiter), così come quello del “mistero” che conferisce il titolo all’opera: come è riuscito Smith a sopravvivere alla caduta dal pallone e soprattutto cos’è quel messaggio in mare con la richiesta d’aiuto? È un ritrovamento che spinge il gruppo a esplorare la vicina isola Tabor, territorio nel quale ritroviamo Ayrton (personaggio derivato dal precedente romanzo “I figli del capitano Grant”).

Il gioco di rimandi e “rimbalzi” sembra non esaurirsi mai, perché anche il Capitano Nemo e Nautilus tornano in campo direttamente da “Ventimila leghe sotto i mari”. Il progresso riuscirà davvero a rendere tanto più avvincente quest’avventura sul grande schermo? Per il momento l’arrivo nelle sale dell’isola misteriosa in 3D si fa strada più che altro tra dubbi e insinuazioni. Se nel 2008 “Viaggio al centro della Terra” di Eric Brevig ha sbancato i box office di mezzo mondo, ci chiediamo adesso chi avrà voglia di assistere alla proiezione del nuovo teen-movie di Brad Peyton: “Viaggio nell’isola misteriosa 3D” sembra attingere a questo grande classico della letteratura senza più rispetto per quel dialogo tanto “protetto” da Spielberg. Se l’isola e la fantascienza sono approdati a questo punto, qualcuno potrebbe pensare di lanciare un S.O.S o di mandare una scialuppa di salvataggio.

Ilaria Abate