L’angolo di Michele Anselmi

In originale si chiama semplicemente “The Dig”, cioè “lo scavo”, ma a Netflix hanno deciso di intitolarlo, per l’Italia, “La nave sepolta”, rivelando tutto ancor prima che il film cominci. Peccato. La storia è vera, benché ampiamente romanzata per il cinema; infatti nella realtà la signora Edith Pretty (1883-1942) era più anziana e assai meno bella di Carey Mulligan, mentre Basil Brown (1888-1977) era più giovane e probabilmente meno fascinoso di Ralph Fiennes.
Accadde tutto nel Suffolk, per la precisione nella tenuta di Sutton Hoo, estate del 1939, poco prima che la Gran Bretagna entrasse in guerra contro la Germania nazista. Sicura che i 18 tumuli di terra non distanti dalla villa patrizia custodissero alcuni reperti archeologici forse vichinghi, la ricca vedova Pretty assunse per due sterline alla settimana uno “scavatore” eccentrico, appunto Brown, affinché indagasse prima che i ladri facessero altre buche. L’uomo, di origine contadina, archeologo e astronomo autodidatta, accettò l’ingaggio, forse incuriosito dalla sfida, senza immaginare che sotto una di quelle collinette fosse distesa una nave sepolcrale del VII secolo, lunga trenta metri, addirittura di origine anglosassone, con notevole tesoro incorporato (monili, monete, bracciali).
Il film dell’australiano Simon Stone, su sceneggiatura di Moira Buffini ispirata a un romanzo di John Preston, rievoca quel sorprendente ritrovamento, ma direi che “la nave sepolta” sia in fondo un pretesto per parlare d’altro: della fragilità umana, delle strettoie dell’esistenza, dell’amore imperfetto, del tempo strappato alla morte, di ciò che resta e di ciò che passa. L’intreccio, a suo modo sentimentale, aggiunge una seconda storia a quella principale, ma certo è lo strano rapporto amoroso, mai sbocciato davvero, tra la vedova dell’alta società e lo “scavatore” proletario a rendere il film così toccante, pieno di sfumature, di sguardi, di segnali, di allusioni.
Naturalmente è la differenza di classe l’ingrediente principale di questo “cine-romance” dall’andamento lento, fatto di dettagli e atmosfere, di cumuli di terra e tecniche di scavo, di sole flebile e pioggia scrosciante, mentre si svela la sostanza drammatica della vicenda: da una parte l’affiorare di malattia incurabile con quel che ne consegue, dall’altra il paradosso di quella scoperta preziosa a un passo dalla dichiarazione di guerra.
Difetti? Un eccesso di musica spalmata su tutto, il contrappunto giovanile con dilemma omosessuale, un che di bozzettistico nel ritratto dell’arrogante archeologo patentato che vuole impossessarsi di tutto; tuttavia, specie nella splendida prima parte, “La nave sepolta” sfodera un respiro palpitante, preparando con densa sensibilità la dimensione simbolica dell’epilogo.
Inutile dire che Carey Mulligan e Ralph Fiennes intonano all’unisono la partitura, spingendo lo spettatore a parteggiare per i due personaggi dall’anima in pena: lei, così elegante e diafana, già segnata dalla morte del marito, alle prese con un figlio in cerca di un padre; lui, dentro i suoi abiti stazzonati, attratto da quella donna luminosa che lo stima, ma in fondo fedele alla moglie premurosa.
Da vedere, preferibilmente in edizione originale con i sottotitoli, per gustare le voci in presa diretta e i diversi accenti.

Michele Anselmi