L’angolo di Michele Anselmi 

La nostalgia, nel senso etimologico del termine, ossia “il dolore del ritorno”, è notoriamente assai cinematografica, mette in moto sentimenti complessi e toccanti. Non sorprende quindi che il prolifico Mario Martone, al quarto film in meno di cinque anni, si sia ispirato al romanzo del conterraneo Ermanno Rea, uscito postumo nel 2016, per farne un nuova perlustrazione emotiva nel ventre un po’ catacombale della sua Napoli. Ieri sera in concorso al festival di Cannes, unico titolo italiano, “Nostalgia” è da oggi 25 maggio nelle sale in 450 copie con Medusa, che coproduce e distribuisce (era da parecchio che la società legata a Berlusconi non si affacciava in gara a un festival di rango).
Una frase di Pasolini, messa in esergo, recita: «La conoscenza è nella nostalgia, chi non si è perso non possiede». Suona bene benché resti un po’ oscura nel senso. Siamo a Napoli, adesso, in quel Rione Sanità caro a Eduardo e Totò che Martone vede come «unico al mondo: un po’ Far West della camorra, un po’ casbah, con i suoi bassi “fatti apposta per ingoiare chi fugge”». Qui torna, come una sorta di spaesato Ulisse, Felice Lasco, ovvero Pierfrancesco Favino. Partì da lì a poco più di quindici anni, grazie a uno zio premuroso che lo spedì a Beirut per fargli cambiare aria; poi andò in Sudafrica e infine in Egitto, dove l’ex scugnizzo ha fatto carriera. Oggi ricco imprenditore 55enne, sposato con una bella dottoressa del Cairo, l’ormai musulmano Felice approda a Napoli per rivedere la vecchia madre male in arnese, povera e sola. Sembra uno straniero dal sapor mediorientale, parla l’italiano con uno strano accento tra arabo e francese, il dialetto napoletano è un ricordo svanito, ma si capisce subito che l’uomo ha un conto aperto con quella città. Tutto lo riporta lì, per riprendere il discorso da dove fu lasciato.
“Nostalgia” dura quasi due ore, sfodera un andamento lento e meditabondo, fin troppo per i miei gusti, ma che certo risponde a una scelta di stile, a un effetto emotivo intriso di malinconia. C’è di mezzo un episodio criminale di tanti anni prima, commesso da Felice insieme all’amico del cuore Oreste Spasiano, oggi diventato un piccolo ma temuto boss camorrista detto ’O Malommo. Avrete capito, insomma: il redivivo vuole rincontrare a ogni costo quel compagno di furti e bravate, come per togliersi un peso, ma quello non ci pensa proprio, anzi, in un crescendo di minacce, gli intima di scomparire, di tornarsene al suo Paese, ovvero l’Egitto.
«Ti illudi, Felice, i cuori si richiudono col tempo» teorizza don Luigi Rega, ispirato alla figura vera di Antonio Loffredo, cioè il sacerdote ostinato e audace che sfida il potere camorrista togliendo i giovani dalla strada e dalla droga al posto dello Stato inerte. Lasco si ritrova a muoversi in quella che fu chiamata «la Valle dei morti», una Napoli ferina e malavitosa, deciso a non mollare, e intanto anche l’antico dialetto non più parlato si riaffaccia alla sua bocca, a chiudere il ciclo.
Favino è un trasformista nato, anche un Fregoli della voce, e qui dà fondo al repertorio, a restituire l’ulcerato animo del suo personaggio: tra attonito e positivo, tra estraneo e partecipe. E tuttavia mi pare che recitino tutti un po’ troppo, pur nella chiave realistica impressa alla vicenda e ben restituita dalla fotografia livida di Paolo Carnera: Tommaso Ragno, lunghi capelli bianchi, barbetta e felpa nera con cappuccio, nei panni di Oreste pare uscire da una graphic-novel con una punta di tragedia greca; Francesco Di Leva, che fu Antonio Barracano, ovvero “il sindaco del rione Sanità” in un precedente film di Martone, passa dall’altra parte della barricata incarnando il prete onesto che pratica il Bene.
Naturalmente il magistero di Martone, che firma la sceneggiatura con Ippolita di Majo, si sente: nello sguardo pietoso col quale inquadra Felice mentre tiene in braccio la madre ignuda prima di immergerla in una vasca per lavarla (quasi una “Deposizione” alla rovescia); nella metaforica esplorazione delle Catacombe, viste quasi come una divinità materna; nei dettagli su una Napoli avvolgente e minacciosa, dove anche i citofoni vanno difesi con robuste grate di metallo.

Michele Anselmi