L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per “Il Secolo XIX”
D’accordo, ci sono chili di aforismi sui giornalisti. «Non avere un pensiero e saperlo esprimere: è questo che fa di qualcuno un giornalista» teorizza Karl Kraus. «Un vero giornalista: spiega benissimo quello che non sa» ironizza Leo Longanesi. Si potrebbe continuare all’infinito. E tuttavia: perché trattarci male se siamo così stupidi? Perché bersagliarci con sfoghi, insofferenze, sfottò? Da qualche tempo, tra i cineasti, va di moda insolentire la stampa. Non le firme importanti, quelle tornano comode, meglio i giovani cronisti che magari pongono domande ingenue, ma comunque pertinenti.
Fresco è il caso di Toni Servillo, raccontato dal “Secolo XIX”. «Senza mancarle di rispetto, sono fatti miei. Stiamo presentando un film, parlando di fantasia. Invece si pensa fondamentalmente di sapere i fatti degli altri» ha sibilato l’attore campano a una collega che, temerariamente, gli chiedeva di parlare del suo rapporto con la fede (badate bene: nel film “Le confessioni” incarna un carismatico frate certosino). A una giornalista di Rainews24 andò peggio nel gennaio 2014: la poveretta si beccò un “vaffa” in diretta, con la scusa della linea telefonica incerta, dopo essere stata redarguita così a proposito di “La grande bellezza”. «Mi sembra francamente inopportuno parlare di critiche, a meno che lei non abbia voglia, come me, di condividere l’entusiasmo per un risultato del genere. Credo che la maggior parte degli italiani vogliano condividere l’entusiasmo, non hanno voglia di parlare di critiche». Accidenti. E anche qualche sera fa ai David di Donatello in diretta Sky, nel consegnare un premio, Servillo ci ha messo del suo, tanto per non risultare simpatico.
«Puoi essere un grande attore, un grande artista, un genio assoluto, ma se hai bisogno di trattare male gli altri esseri per affermare la tua superiorità mi fai una gran pena» ha postato su Facebook Cristiana Paternò, giornalista di Cinecittànews e vicedirettore della rivista “8 ½”. Senza fare nomi e cognomi, ma tutti hanno capito, e la cosa in rete s’è sviluppata tra aneddoti, commenti, testimonianze. Anche se l’uomo, di sicuro vibrante interprete, è tra i più dediti a sfoghi, insofferenze, battutine nei confronti della stampa
La verità? Quotidiani, tv, radio e siti fanno comodo per promuovere i film, ma guai a uscire dal solco. I giornalisti sono spesso visti da attori e registi come cinghie di trasmissione del consenso, veicolo pubblicitario, addirittura naturali complici. A patto che non rompano troppo (poi facciamo anche noi errori e sciocchezze).
Per dire, pescando nella memoria. Gianfranco Rosi, il regista di “Fuocoammare”, presentando a Venezia 2013 “Sacro GRA”, poi Leone d’oro, se ne uscì graziosamente così: «Baratterei volentieri questa conferenza stampa con altri tre anni sul raccordo anulare». Nessuno l’aveva provocato, anzi erano fioccati applausi. Un altro che un po’ se la tira è Sergio Castellitto. Quando mostrò “La bellezza del somaro” bastò poco, un garbato rilievo di una giornalista, per farlo uscire dai gangheri. «Credo che questo film sia straordinario e geniale, che io stesso, come attore, qui sono eccezionale. E che lavorare con Margaret sia uno straordinario privilegio». Sottinteso: cretina, come ti permetti?
Facili a spazientirsi, se le domande appaiono frivole o fastidiose, sono registi pure di rango come Gianni Amelio, Paolo Sorrentino, Marco Bellocchio, Ferzan Ozpetek, Giovanni Veronesi, Pupi Avati, Luca Guadagnino, perfino il mite Francesco Bruni. Soprattutto, s’intende, Nanni Moretti, che in “Palombella rossa” cesellò per sfotterla una mitica giornalista incapace, tutta “kitsch” e “cheap”, urlandole: «Ma come parla? Le parole sono importanti». Da allora non ha più smesso. Oppure attori come Valerio Mastandrea, Asia Argento, Giovanna Mezzogiorno, Marco Giallini, Claudio Amendola, Riccardo Scamarcio, Alessandro Gassmann, Claudio Santamaria.
Da prendere con le molle è Elio Germano, forse il più politicizzato di tutti. Ne sa qualcosa il sottoscritto, colpevole di aver anticipato che in “Nessuna qualità agli eroi” avrebbe sfoderato in scena un membro in erezione, di profilo ma bene in vista. La sua replica scocciata? «Non mi interessa parlare di simili sciocchezze. Rivelano solo un deficit di cultura, spiegano com’è ridotta l’Italia. Il cinema è un’altra cosa. E non mi si venga a parlare di coraggio! Io faccio film, spero belli, per il pubblico che viene a vedermi, non per alimentare le chiacchiere di voi giornalisti. Buongiorno!».
Oddio, non scherza nemmeno il regista di quel film, Paolo Franchi. Qualche anno dopo, scottato dai fischi piovuti su “E la chiamano estate”, l’avrebbe buttata sul complotto mediatico: «La stampa ha dato una lettura unidirezionale, grottesca, quasi ci fosse la direttiva di stroncare a priori il Festival di Roma». E ancora: «La caricatura del mio film ha radici profonde. Esiste un’abominevole fetta di critica che, per ragioni di lobby e vendette, ha trovato nel mio lavoro il volano ideale per fare casino». Addirittura?
Michele Anselmi