La pecora nera | "Il buio fa paura e si può morire per la paura del buio"
Un film duro che con estrema naturalezza racconta allo spettatore l’alienazione di uomini che vivono esistenze al confine del senso comune. Per tre anni Ascanio Celestini ha intervistato persone che sono state rinchiuse in manicomio, parlato con infermiere facendosi raccontare episodi e aneddoti di questi luoghi/non luogho che sono i manicomi. Ha condotto laboratori teatrali all’interno di questi edifici affinchè potesse relazionarsi direttamente con una materia ricca di significati simbolici e sociali, per comprendere sin nel profondo che cosa potesse essere stata una delle istituzioni principali del ‘900. Ma attenzione perché il film non è un film di denuncia sulla realtà amara dei manicomi in Italia. Il film è un concentrato di riflessioni interne dell’autore che si è misurato con una materia difficile e complicata; traendo da questa esperienza prima uno spettacolo teatrale, poi un libro e in fine un film. Il testo filmico si presenta stratificato: ad un primo livello di analisi assistiamo al racconto narrativo; ovvero la storia di Nicola e dei suoi ricordi tragici legati ad un luogo preciso cioè il manicomio. Ricordi in frammezzati da episodi devastanti avvenuti nell’età più fragile dell’uomo, ovvero l’infanzia. Rivediamo sullo schermo tutti i momenti più significativi della vita di Nicola: come la festa all’oratorio, il racconto della scorpacciata di ragni con la compagnia di classe Marinella. Tutti già presenti sia nell’adattamento teatrale che nel racconto. Esplorando il secondo livello narrativo scopriamo che è la tematica sociale a prendere il sopravvento: “nei magnifici anni 60” leit motiv del film, -quasi una formula fissa che arriva ad infastidire le orecchie dello spettatore- può accadere che un bambino venga stigmatizzato come diverso perché non ha una famiglia alle spalle che lo protegge, perché non segue i programmi scolastici standardizzati, che visiti ripetutamente i manicomi, che baci in fronte la madre che era “dura come un mattone” ormai catatonica in un letto di manicomio. E può accadere che questo bambino sia stordito per sempre dall’esperienza dell’elettroshok, per rendere definitiva l’impronta del diverso, che la società, con i suoi assurdi e folli meccanismi, impone ai più deboli a vita. Il terzo livello, quello più sottile e forse quello meno riuscito -non per incapacità del regista/attore o per manchevolezza della sceneggiatura, arricchita anche dalla mano dell’abile Ugo Chiti- è questo flusso di coscienza che emerge nei fuori campo, come se fosse la rappresentazione della malattia mentale che affligge Nicola e tutti coloro che vivono l’esperienza di un disordine emotivo. Sono tutte le ripetizioni compulsive e ossessive, come ad esempio “Il buio fa paura e si può morire per la paura del buio”. Frasi apparentemente senza senso che denunciano il non senso di intere esistenze vissute nel nulla, in un vuoto codificato e impartito da chi ha potere legittimato e istituzionalizzato. E’ la parte più dura e cruda del film e nonostante si avverta un senso di incomputezza è questa parte che ha un respiro universalistico, che abbozza lo scenario di questi vinti che non possono attaccarsi a niente se non al manicomio stesso, a questo luogo istituzionalizzato dove l’identità viene assottigliata a tal punto che alla persona non resta più niente.