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“Un medico non può lasciarsi sopraffare dalle emozioni”. In questa frase, pronunciata dalla giovane dottoressa protagonista dell’ultimo lavoro dei fratelli Dardenne può essere racchiuso il senso di La ragazza senza nome e, allargando il discorso, anche del “fare cinema”. Gli approcci a storie e personaggi trattati possono essere di diverso tipo, ovviamente: alcuni registi prediligono costruire un mondo di emozioni con le quali gli spettatori possono entrare a contatto ed empatizzare, trascinati da forti sensazioni; altri, invece, tendono a minimalizzare, ad anestetizzare il contenuto emotivo.
La ragazza senza nome sembrerebbe optare per un racconto del primo tipo: la dottoressa Jenny, talentuosa e dedita alla propria professione al punto tale da rifiutare un prestigioso impiego e preferire mandare avanti lo studio in cui ha iniziato a lavorare curando gli ultimi, si sente in colpa per non aver assistito al pronto soccorso (dopo l’orario di chiusura dello studio) una ragazza di colore che, l’indomani, viene trovata morta. L’obiettivo del medico diviene, quindi, quello di dare un’identità alla ragazza deceduta, mettendo in pericolo la propria vita. Inizia una detection con l’obiettivo di indagare sulle circostanze che hanno portato alla morte della giovane.
Nonostante il soggetto interessante e, come si diceva, ad alto contenuto emozionale, almeno sulla carta, il risultato non è all’altezza delle aspettative. La formula è rigida e tende a ripetersi in modo assai simile al penultimo lavoro dei registi belgi, Due giorni, una notte, in cui si sentiva il rumore dei farraginosi ingranaggi che portavano avanti la narrazione. Il racconto è schematico e vive degli stessi motivi di sviluppo che si susseguono con costanza durante tutta la durata. Ma ciò che più si rimprovera a La ragazza senza nome è l’assoluta mancanza di pathos e di tensione. Il risultato finale è quello di un compitino algido e freddo, anestetizzato e privo di vita, portato avanti con diligenza, ma anche con la giusta distanza fino al rapido ed inconcludente finale. Peccato che un cinema sociale come questo non osi sporcarsi maggiormente le mani, ma si accontenti di rimanere in superficie.

Matteo Marescalco