L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor

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«In questa storia non ci sono circostanze attenuanti. A noi piace raccontare personaggi che si assumono responsabilità individuali, specie oggi, un’epoca in cui se succede qualcosa di grave è sempre colpa degli altri». Così i fratelli Luc e Jean-Pierre Dardenne presentando a Roma “La ragazza senza nome”, che ha inaugurato martedì sera il festival Terzo Millennio. Da giovedì 27 ottobre in sala con la Bim, il film è l’opus n. 10 dei due registi belgi. Di nuovo, come l’operaia Manu di “Due giorni, una notte” sulla quale pende la minaccia di un licenziamento, una giovane donna è al centro della vicenda. Siamo a Seraing, a un passo da Liegi, proprio dove sono nati i cineasti di “Rosetta”. Qui esercita la giovane dottoressa Jenny Davin, una tipa tosta e alta, di una bellezza fiera e sobria, probabilmente single. La chiamano per un ruolo di prestigio in un ospedale, ma lei preferisce restare nello studio ereditato da un vecchio dottore ormai malato: dove riceve anziani, bambini, mamme ex alcolizzate, immigrati, per lo più gente povera. E poi ci sono le visite a domicilio, faticose, spesso notturne.
Non si sente un’eroina, ma le piace quel mestiere “di frontiera”. Capelli raccolti, neanche un’ombra di trucco, cappotto a scacchi, maglioncini rossi o azzurri su jeans attillati, Jenny è laconica ma sa trattare i suoi pazienti con gentilezza. Una sera, dopo l’orario di chiusura, mentre litiga col suo stagista, non risponde al campanello che suona, neanche vuole sapere chi sia. Poche ore sarà la polizia a informarla: era una ragazza africana, ritrovata morta a poca distanza, sugli argini della Mosa, senza documenti e con la testa fracassata.
A suo modo “La ragazza senza nome” è un giallo, ma trattandosi dei Dardenne non aspettatevi una classica storia di detection e suspense. Anche se Jenny, sempre più ossessionata da quella tragica morte di cui si sente in buona misura responsabile, comincia a svolgere una sua personale indagine. L’intento non è trovare i colpevoli, ma dare un nome a quella sventurata, perché sia sepolta come si deve, perché qualcuno possa piangere e portare fiori sulla sua tomba.
Girato in digitale per lo più in spazi chiusi o sotto cieli grigi del Belgio, luce naturale, neanche una nota di commento musicale, grande cura nel sonoro, attori professionisti che sembrano presi dalla vita vera per come appaiono credibili, “La ragazza senza nome” aggiunge un nuovo, intenso capitolo al cinema di forte impianto sociale (ed etico) praticato dai Dardenne.
Il film “pedina” Jenny nelle sue giornate, tra visite ad anziani diabetici, notti insonni allo studio, pazienti maneschi e minacciosi, finché il vomito ricorrente di un adolescente le fa capire che qualcuno sta mentendo sulla fine di quella ragazza nera, forse neanche ventenne.
La francese Adèle Haenel è perfetta, anche fisicamente, nell’incarnare Jenny, questa donna moderna, sempre connessa tramite cellulare, talmente determinata a individuare quel nome da riuscire infine, pur combinando qualche pasticcio, a smuovere la coscienza di chi sa. Alcuni degli interpreti cari ai Dardenne, da Jérémie Renier a Olivier Gourmet e Fabrizio Rongione, tornano in questo film ruvido e desolato, per molti versi pessimista, e tuttavia animato da un palpito di speranza che trascende giudizi moralistici e fervorini politici. Certo sarebbe bello se un po’ di Jenny fosse in tutti noi.
PS. Da vedere in coppia con “Io, Daniel Blake” di Ken Loach. Poi, però, urge una commedia per sorridere un po’ della vita.

Michele Anselmi