L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per “il Secolo XIX”

Quante volte abbiamo pensato, scritto e letto che Carlo Mazzacurati, morto a soli 57 anni il 22 gennaio scorso, era un amabile orso padovano? Corpulento, barbuto, anche un po’ goffo nei movimenti, somigliava più a uno Yoghi da cartone animato che a un feroce grizzly intento a sbranare il prossimo. In “La sedia delle felicità”, il film che esce postumo ma non è postumo, avendone il cineasta veneto curato totalmente l’edizione prima di presentarlo al Festival di Torino 2013, appare in sottofinale un buffo orso, con dentro un uomo, alla maniera della pubblicità Vadofone. Non parla con la voce di Diego Abatantuono, ma spedisce rovinosamente fuori strada, lassù sulle Dolomiti, un prete in moto da cross lanciato all’inseguimento dei due protagonisti intenti a raggiungere la malga 120. Non lo fa apposta, infatti, quasi dispiaciuto d’aver spaventato il poveraccio, la bestia allarga le braccia di fronte alla cinepresa, quasi a suggerire: «Signori, così è la vita».
L’orso Mazzacurati non c’è più, purtroppo, ucciso da un tumore al cervello. Il film, dedicato alla moglie Marina e alla figlia Emilia, è nelle sale in 150 copie dal 24 aprile, coprodotto da Angelo Barbagallo e distribuito da 01-Raicinema. Speriamo che il lungo ponte di vacanze non lo penalizzi, perché “La sedia della felicità” è una commedia spensierata ma non superficiale, leggera ma non inconsistente. A suo modo un commiato tenero, girato durante i lunghi mesi della malattia, tra asprezze e sollievi, senza iniettarvi una pena certo vissuta nel profondo e insieme esorcizzata nel fare gioioso sul set.
«L’ispirazione nasce da un paesaggio umano e fisico che conosco bene, il Nordest. Dal desiderio di narrare una storia in tono comico, anche grottesco, ma con realismo e verità, tenendo insieme il senso di catastrofe in cui sembra stia cadendo l’Italia con l’energia e la voglia di riscatto che nonostante tutto si sente nell’aria». L’ha lasciato scritto lo stesso Mazzacurati, uomo spiritoso e per nulla lagnoso, pure cultore sperticato, a sorpresa, di film d’animazione come “Fantastic Mr. Fox” e manga giapponesi tipo “Kiki – Consegne a domicilio”. Uno che invitava ad essere gentili sempre, con tutti: perché ogni persona che incontri combatte una battaglia di cui non sai nulla.
Già, il Nordest. Cominciò nel 1988, con “Notte italiana”, a raccontarlo, spesso con toni disincantati, acidi, feroci, cercando “la giusta distanza”, come recita il titolo di un altro suo film. Ma “La sedia della felicità”, titolo trovato in extremis da un bambino di tre anni e preferito all’originale “La regina della neve” che pure aveva un senso, introduce una novità, anche rispetto a ritratti lividi e impietosi di quel mondo come il recente (e un po’ sopravvalutato) “Piccola patria”: la speranza. L’idea, insomma, che anche se il Paese va in malora, non per questo bisogna rinunciare a vivere, innamorarsi, sorridere, a recuperare un pizzico d’allegria anarchica e ribalda per ergersi sopra la tragedia quotidiana.
Dice un frammento di dialogo: «Il trasloco è il secondo evento più drammatico nella vita di un uomo». «E il primo?». «La morte». Quella morte che aleggia, tra ultime volontà sospirate all’orecchio e lapidi funerarie in cerca di fiori, su tutta la vicenda, desunta molto liberamente da un romanzo russo del 1928 già trasposto al cinema varie volte, a partire da “Il mistero delle 12 sedie” di Mel Brooks. Ma il tono della commedia non è funereo o umbratile, depresso, come se Mazzacurati vi avesse trasfuso il desiderio di non piangersi addosso.
La storia è presto detta. Siamo a Jesolo. Il tatuatore Dino e l’estetista Bruna, cioè Valerio Mastandrea e Isabella Ragonese, non si conoscono, benché abbiano i rispettivi negozi l’uno di fronte all’altro. Entrambi in cattive acque per colpa della crisi, si ritrovano complici, insieme al prete bello e ciccione Giuseppe Battiston, alle prese con un segreto poco commendevole, nella ricerca spasmodica di una sedia che custodisce uno scrigno pieno di gioielli. Ma le sedie, di massiccio legno rosso e con l’imbottitura kitsch-zebrata, componevano un ricco servizio da salotto smembrato nel tempo. Come trovare quella buona?
Il film è una bizzarra, maldestra, anche avventurosa caccia al tesoro: tra centri commerciali, ville decadute, ristoranti cinesi, rifugi d’altra montagna, attrezzi sado-maso A tratti in chiave western, almeno ad ascoltare le musiche di corredo. Il tono è eccentrico, lirico, sentimentale, anche rispetto a commedie come “La lingua del Santo” e “La Passione”. E non mancano le partecipazioni in amicizia, da Antonio Albanese a Fabrizio Bentivoglio, da Silvio Orlando a Roberto Citran, da Marco Marzocca a Katia Ricciarelli. «Certo che vengono tutti, chi vuoi che dica di no a un povero malato?» scherzava sul tema Mazzacurati.
Inutile dire che i due protagonisti, Mastandrea e Ragonese, intonati al registro comico-romantico, non si espongono coi giornalisti al ricordo commosso, retorico, e anzi preferiscono quasi scherzare su quell’orso padovano che li chiamò sul set per renderli ricchi, ricchissimi. Almeno nella finzione. Frase chiave, naturalmente detta da Dino: «Le donne passano, i tatuaggi restano».

Michele Anselmi