L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per “il Secolo XIX”

La sparatorie in tribunale è un classico al cinema e in tv, specie negli Stati Uniti. Avete in mente quelle aule eleganti, anche nella contea più remota del Sud, tutte in mogano e con le pareti rivestite in legno, dove echeggia un’obiezione ogni 30 secondi, il giudice di solito nero o donna s’arrabbia e minaccia di sgomberare l’aula martellando la scrivania, gli avvocati vengono fatti avvicinare al bancone mentre la giuria rumoreggia? Niente a che vedere, sul piano delle “scenografie”, col milanese Palazzo di Giustizia, dove giovedì 9 aprile s’è consumato quell’orribile triplice omicidio ad opera dell’ex immobiliarista Claudio Giardiello.
Ma poi pensi al quindicesimo episodio della quinta stagione di “The Good Wife” e scopri quanto la fiction possa assomigliare alla realtà, quasi anticiparla. Che cos’è successo nella bella serie prodotta da Ridley Scott? L’abbiamo visto appena due settimane fa, su Raidue: uno dei protagonisti, l’affascinate e cinico avvocato Will Gardner, incarnato da Josh Charles, viene ucciso a colpi di pistola da un suo cliente impazzito durante il processo. Così, all’improvviso, l’uomo senza apparente ragione si mette a sparare in aula, freddando e ferendo altri malcapitati. Lui, Will, resta sul pavimento, in un lago di sangue, nel fuggi fuggi generale. Alice Florrick, la protagonista interpretata da Julianna Margulies, pure lei avvocato, ancora non sa: i due si amano di nascosto, tra mille scrupoli e pentimenti, e il colpo di scena, davvero inatteso ma preparato con cura, pare abbia riattivato l’attenzione del pubblico e moltiplicato gli ascolti della serie a sfondo processuale ambientata a Chicago.
Ma nella fiction è facile: l’attore era stanco di quel ruolo, così hanno trovato il modo di farlo uscire di scena con profitto, in vista della sesta stagione. Nel cinema hollywoodiano è un po’ diverso. Di solito, a parte una sequenza di “007 Skyfall” e il documentario “Hillsville 1912: A Shooting in the Court” su un vero fatto di cronaca, il “disperato” ha qualche buona ragione per compiere l’atto inconsulto o vendicativo, certo criminale ma frutto di un’ingiustizia subita. Quanti ne abbiamo visti irrompere in ospedali, aziende, distretti di Polizia, redazioni di giornali, banche e uffici di Stato per urlare al mondo rabbia e impotenza? Ma in tribunale fa più effetto. Rivedere per credere “Il momento di uccidere” che Joel Schumacher firmò nel 1996, ispirandosi all’omonimo legal-thriller di John Grisham. Ricorderete forse. Nel Mississippi razzista anni Ottanta, l’operaio afro-americano Carl Lee uccide col fucile a pompa i due bianchi che hanno violentato e lasciato quasi morire ucciso la figlia adolescente. E lo fa simbolicamente in tribunale, laddove i due stupratori stanno per farla franca. Poi l’uomo, con la faccia e la dignità di Samuel L. Jackson, si consegna; e a quel punto toccherà al giovane avvocato sudista, ma democratico, di difenderlo, in compagnia di una collega nordista. Difenderlo dalla legge e dal Ku-Klux-Klan, s’intende. Almeno in questo Milano è lontana.

Michele Anselmi