Shira è la figlia più giovane di una famiglia ebrea ortodossa di Tel Aviv. Promessa sposa ad un giovane della sua stessa età ed estrazione sociale è felice per il sogno che si sta avverando. Durante la festività del Purim, la sorella maggiore Esther, muore di parto mettendo al mondo il suo primogenito. L’angoscia e il dolore colpiscono la famiglia.
Quando al marito di Esther, Yochay, viene proposto un nuovo matrimonio con una vedova belga e la suocera scopre che l’uomo potrebbe lasciare il paese portandole via il suo unico nipote, la donna propone un’unione tra Shira e il vedovo. La ragazza si troverà di fronte ad un bivio: scegliere di ascoltare il suo cuore o seguire la volontà della famiglia e unirsi ad un uomo tanto più maturo di lei.
Primo lungometraggio di Rama Burshtein, regista ebrea newyorchese, il film, che alla Mostra di Venezia ha vinto la Coppa Volpi (grazie alla splendida e delicata protagonista Hadas Yaron) è il candidato di Israele agli Oscar. La sposa promessa è uno spiraglio aperto su una realtà particolare e poco nota: la comunità ultraortodossa chassidica di Tel Aviv. Girato quasi completamente all’interno di una casa, il mondo secolare relegato oltre le finestre: musica moderna e chiassosa fuori, canti e preghiere rituali dentro. È una pellicola che ha qualcosa di storico che la colloca fuori dal tempo. Illuminazione pastosa, toni morbidi e inquadrature rigorose. Colbacchi e cappelli, lunghi boccoli ai lati dei volti degli uomini, turbanti e pittoreschi costumi per le donne, visi scuri e medio-orientali si alternano a quelli fiamminghi. Atmosfere e dialoghi che richiamano, per stessa ammissione della regista, i romanzi di Jane Austen.
Al di là dei riti complessi e rigidamente applicati, attraverso gli occhi chiari e trasparenti della giovane Shira, ammiriamo figure femminili forti, seppur costrette, tra casa e sinagoga, in ruoli predeterminati di mogli e madri. E viviamo con lei emozioni e sentimenti universali.
Francesca Bani