L’angolo di Michele Anselmi
L’Italia è quasi tutta in zona rossa, nessuno si muove da casa (o quasi), sicché anche un buon suggerimento televisivo è ben accetto. M’ero perso su Netflix, pur avendo notato il titolo, una miniserie intitolata “Self-Made: la vita di Madam C.J. Walker”. Risale al marzo 2020, dunque al primo lockdown, ma va benissimo anche per questo secondo o terzo. L’importante – non è un’ubbia da cinefilo – è vederla in lingua originale con i sottotitoli, perché il doppiaggio italiano è davvero atroce, di quelli che rendono le voci fasulle e vezzose, proprio il contrario di una certa melodiosa espressività afro-americana.
Chi è “Madam C.J. Walker”? Nata Sarah Breedlove giù in Louisiana, quinta di sei figli, poco dopo la fine della Guerra civile, diventò in pochi anni, tra il 1908 e il 1919, la prima milionaria nera d’America, oltre che un’audace imprenditrice nel campo dei capelli e dei prodotti correlati. “I capelli sono bellezza, i capelli sono potere” teorizza Sarah quando intuisce che il destino delle donne di colore, la possibilità di piacersi e di piacere, di emanciparsi da condizioni di vita umilianti, passa anche attraverso la cura della chioma.
All’inizio lei è una lavandaia sfruttata, mal maritata con figlia a carico, colpita da alopecia a causa delle cattive condizioni igieniche e di una crescente depressione. Una bella, ricca e intraprendente mulatta le fa ricrescere i capelli con una crema “miracolosa”, lei vorrebbe mettersi in società, ma l’altra la snobba, ritenendola brutta e grassa, incapace di vendere il prodotto. Così Sarah, che nel frattempo ha trovato un nuovo marito che sembra amarla davvero, tal C.J. Walker, migliora per tentativi artigianali quella crema infoltente e si trasferisce da Saint Louis a Indianapolis con l’idea di fondare quella che diventerà nel tempo la potente e ramificata “Madam C. J. Walker Manufacturing Company”.
La miniserie in quattro puntate (circa 45 minuti l’una) è stata fortemente voluta dall’attrice Octavia Spencer, vista in tanti film hollywoodiani sul tema del razzismo. Infatti lei dà corpo e voce a Sarah, lei coproduce e immagino abbia contribuito a scegliere il cast “all black” nonché le due registe coinvolte, anch’esse afroamericane, che sono Kasi Lemmons e DeMane Davis.
Vedo, in rete, recensioni negative a un passo dalla stroncatura, dove si parla di “scontati cliché” e “pessima recitazione”. A me non pare che sia così. Il tono è insieme realistico e allegorico, nel senso che il racconto, scandito per contrasto da musiche contemporanee, si apre a bizzarri siparietti onirici e numeri coreografici, proprio per renderlo meno “d’epoca”, cioè biografico in senso stretto. Poi certo può non piacere la chiave scelta, ma io trovo interessante, a tratti appassionante, la ricostruzione della lunga marcia imprenditoriale di Sarah in un’America ancora razzista e afflitta da pregiudizi, pure all’interno della comunità nera (lo scontro col carismatico Booker T. Washington).
La filantropa Sarah diventerà addirittura vicina di casa del ricchissimo Rockefeller, in una “mansion” sontuosa, tipica di chi ce l’ha fatta contro tutto e tutti; e intanto affiorano temi come l’omosessualità femminile, la meschinità virilista, la diffidenza dei grandi magazzini bianchi, la persistenza della violenza razzista non troppo più a sud, eccetera.
Gli interpreti si adeguano bene al tono generale, che non è da cinema d’autore, e quindi contempla anche bozzetti e sottolineature “pop”, specie nel finale sotto i fuochi d’artificio. Ciò detto, non mi sono mai annoiato e certo sorprende che tutta la miniserie, quasi 200 minuti, sia stata girata in poco più di due mesi.
Michele Anselmi