Sound & Vision

Quattro mura, una tastiera MIDI ed un’economica scheda audio. Un groviglio di cavi disordinati si dipana sul pavimento come capelli di Medusa dal diametro di 6.55 millimetri. Un computer, mente suprema dell’intero processo creativo, rimpiazza l’obsoleto mixer a sessantaquattro canali. Tutorial a portata di click hanno avuto la meglio sui tecnici del suono. La ricetta è stata seguita alla lettera. Lo studio di registrazione casalingo è finalmente operativo. Queste dinamiche sono certamente note ai musicisti del Ventunesimo secolo. Ondate di giovani si stanno dotando di un “home studio” dopo aver scoperto che i loro artisti preferiti hanno registrato hit globali dalle loro camerette. Giocoforza, la musica popolare negli ultimi anni è stata colonizzata da personalità riconducibili al cosiddetto “bedroom pop”: basti pensare, su tutti, a Billie Eilish e a suo fratello Finneas, due vere e proprie superstar mondiali.

Bo Burnham doveva essere sicuramente cosciente delle potenzialità di questo genere quando ha deciso di girare “Inside”, film distribuito da Netflix a maggio di quest’anno. Nella pellicola il versatile comico americano prova ad esorcizzare la distopia altrimenti conosciuta come Duemilaventi, cercando di trovare, attraverso il linguaggio audiovisivo, un qualche senso all’”hikikomorizzazione” forzata che stava vivendo. La pandemia l’ha obbligato ad abbracciare un creativo approccio DIY al videomaking. Bo si serve solamente di una telecamera per filmare, affidandosi ad una serie di luci e proiettori per plasmare a piacimento l’altrimenti spoglia scenografia di casa sua. Nonostante questo minimalismo il comico riesce a sperimentare con i vari formati delle inquadrature, scimmiottando, con fare citazionista, ora il 4:3 tipico dei social network, ora il 16:9 dei videoclip musicali. Neppure fenomeni come gli streamer di Twitch o i “reaction videos”, marchio di fabbrica di Youtube, vengono risparmiati dalla satira di Burnham.

L’ideatore della pellicola si serve della musica per veicolare taglienti riflessioni sugli argomenti più disparati, dallo strapotere delle multinazionali fino al razzismo istituzionalizzato. Zuccherose sonorità synth pop, a tratti volutamente melense, contribuiscono a regalare melodie che si insinuano immediatamente nell’orecchio dell’ascoltatore. Timbriche funky, dance e disco vengono piegate secondo il volere di Burnham, che le utilizza come sostrato per le proprie arringhe sociopolitiche. Grazie all’uso di plug-in virtuali il musicista ha a portata di mano una vasta gamma di suoni, tutti riconducibili al pastiche sonoro degli anni Ottanta. Piani elettrici simil Fender Rhodes e Wurlitzer servono da tappeto a galoppanti batterie elettroniche. Esplosive basi EDM composte da massive sequenze di sintetizzatore si ibridano alle sarcastiche liriche sopra le righe cantate dal comico. L’esempio più lampante è “Bezos”, una tagliente arringa in stile Depeche Mode rivolta al magnate di Amazon. Oltre a giocare con gli aspect ratio più utilizzati in rete, Bo ridicolizza anche il dilagante trend dell’”inspirational music”, quel tipo di sonorità utilizzata dalle aziende per vendere prodotti facendo presa sull’emotività dei consumatori. In “Unpaid Intern” il protagonista tratta il tema del precariato riprendendo stilemi sonori tipici delle canzoni blues di denuncia sociale. “Sexting” ironizza, tramite giocose e rilassate melodie “cheesy”, sul fenomeno del sesso virtuale. In “Welcome To The Internet” Burnham racconta alcuni dei fenomeni più surreali e oscuri del web utilizzando un ironico pianoforte ragtime. Degna di nota “That Funny Feeling”, delicata ballata che abbandona i territori sonori elettronici in favore di un’intima chitarra acustica. Impossibile non ridere di fronte all’ironica “White Woman’s Instagram”, un inno alla superficiale vacuità social.

In conclusione, colpisce la spontaneità con cui Burnham, una vera e propria “one man band”, riesce ad orientarsi coerentemente in una giungla eterogenea di generi musicali e formati audiovisivi differenti. Probabilmente “Inside” verrà ricordato come una delle riflessioni più lucide, autentiche e sincere sull’alienazione agorafobica provata dai più durante le numerose quarantene che hanno caratterizzato tutto il Duemilaventi. Ai posteri l’ardua sentenza. Per ora limitiamoci a canticchiare “Is this heaven? Or is it just a White woman Instagram?”.

Gioele Barsotti