Tutto ha inizio con una tempesta marina. Onde giganti ovunque pervadono lo schermo. Sperduto e in preda al panico, un naufrago si dibatte, lotta per la sopravvivenza, lui solo, granello sperduto, contro una montagna d’acqua in movimento. La tartaruga rossa, premio speciale a Cannes nella sezione Un certain regard, è più di una semplice parabola ecologica. Nel suo insieme, il racconto si inebria della bellezza custodita tra terra e mare, dell’armonia di ogni elemento presente in natura, vivo o inerte, con l’impeto delle grandi storie mitologiche. Il mare placa il suo respiro e l’uomo trova rifugio sull’isola deserta. Ne seguirà forse un racconto alla maniera di Daniel Defoe? Pista sbagliata. La natura non è una riserva imbandita per l’ospite accidentale. Essa è prima di tutto potenza misteriosa, impassibile e cangiante, accogliente ed inquieta. A volte il cinema riserva qualche miracolo. Questo piccolo capolavoro d’animazione prende vita dall’incontro tra uno dei migliori artigiani degli ultimi venticinque anni, l’olandese Michaël Dudok de Wit e il celebre Studio Ghibli, casa madre dei film dei maestri Miyazaki e Takahata.

Lo studio collabora per la prima volta con un artista non giapponese. Ne risulta una sinfonia poetica in grado di armonizzare due grandi talenti. La tartaruga è per tradizione il simbolo di un rapporto armonico, totem di determinazione, pazienza e serenità. Quale altro animale poteva rappresentare il perfetto trait d’union tra due mondi, due approcci all’animazione apparentemente tanto diversi?
All’inizio il naufrago costruisce una zattera di fortuna con quello che gli capita sottomano. E tuttavia il mare non è d’accordo. Una, due, dieci volte egli prova a raggiungere il largo. Dieci volte verrà sprofondato da una forza incomprensibile e misteriosa. Allo stesso modo il film rappresenta una sfida continua alle attese degli spettatori. Il naufrago e il pubblico in sala necessitano di tempo per cambiare punto di vista, permettendo all’accessorio di divenire essenziale: il ciclo della risacca sulla sabbia, il mormorio dei bambù mossi dal vento, il ritmo dei giorni che si susseguono, lenti e regolari, come il respiro di un uomo addormentato. Lungometraggio fatto “a mano”, La tartaruga rossa è un racconto contemplativo (e totalmente senza parole) che discorre attraverso la luce e l’uso dei colori, l’oro del sole, il grigio piombo della tempesta, il celeste di una sorgente d’acqua dolce. L’isola è davvero incantata?

Stremato, coperto di stracci, l’uomo senza nome e senza parole si addormenta e il suo sonno tormentato si riempie di visioni. E tuttavia è da sveglio, sotto il sole cocente, che egli individua la colpevole, colei che ha affondato la sua imbarcazione, impedendogli di fuggire. Si tratta di un’immensa tartaruga rossa che, così come nei miti di tanto tempo fa, si trasforma in una donna dalla lussureggiante capigliatura color fulvo. La felicità primitiva, giorno dopo giorno è raggiunta in un ciclo sereno di sieste e risate fra pesca e raccolta, sole a picco e crepitio di acquazzoni passeggeri. Nulla che possa annoiare nella dolcezza spontanea di sagome umane ormai placate, del tutto a loro agio. Esse abbracciano la natura in ogni sua forma, dalla più pacifica alla più violenta. Quando, come una divinità, la tartaruga torna al mare, il mistero resta. Un bambino è nato, cresciuto e ha preso il largo. Per l’uomo e la donna è tempo di congedarsi dal mondo con dolcezza. Nelle sale italiane da lunedì 27 marzo per Bim.

Michele Anselmi