“Rock keyboard (r)evolution. Breve storia del tastierismo rock, della sua evoluzione e dei suoi protagonisti in Italia e all’estero” di Gabriele Marangoni e “La chitarra. La storia, le curiosità e gli artisti che l’hanno resa immortale” di Adriano Gasperetti tracciano e approfondiscono la storia dei due strumenti più iconici della musica leggera. Per presentare i due saggi, usciti per i tipi di Arcana, abbiamo incontrato i due autori a cui abbiamo rivolto altrettante domande.

“Rock Keyboard (R)evolution” dà al tastierismo rock quel che è del tastierismo rock, passando in rassegna le prime tastiere elettriche, analizzando la rivoluzione del sintetizzatore fino all’evoluzione digitale. Perché la tastiera elettrica, che è figlia diretta dello strumento principe del pianoforte, occupa un posto secondario rispetto, in prima battuta, alla chitarra, se pensiamo alla saggistica dedicata o, non di rado, anche nel cuore degli appassionati di musica? Non è certo possibile che sia tutto legato alla posizione dei musicisti sul palco…
Gabriele Marangoni: Credo che ci siano diverse risposte a questa domanda. Da un lato è vero quello che sottolinea Donato Zoppo nella prefazione del libro, ovvero che le tastiere hanno subìto più di altri strumenti la loro provenienza da musiche “altre”, dalla musica sacra europea se si pensa all’organo alla musica sperimentale americana nel caso dei sintetizzatori. C’è poi un ulteriore aspetto, legato al repertorio. Molti dei tastieristi oggi considerati leggendari – come Keith Emerson o Jon Lord – hanno alle spalle una formazione classica. La presenza di queste influenze all’interno delle loro composizioni ha probabilmente “irritato” una fetta di ascoltatori legati a un’idea di rock che è tale solo se interpretato da guitar-heroes, cantanti scenografici e batteristi vigorosi. Infine, escludendo i campioni del rock progressivo e alcuni discutibili keytarristi emersi dalle ceneri del punk e dagli embrioni della dance, i tastieristi – anche per motivi storici – sono andati raramente in cerca di visibilità, diventando purtroppo facilmente dimenticabili. Rispetto a quello che tu definisci “posto secondario”, invece, devo ammettere di non aver trovato in Italia pubblicazioni assimilabili a “Rock Keyboard (R)evolution”, ed è questo il motivo principale che mi ha spinto a portare a termine una ricerca iniziata, quasi per caso, diversi anni fa. Ciononostante, per quanto limitata, esiste una saggistica – a onor del vero piuttosto datata e quasi esclusivamente in lingua inglese – che è riportata in bibliografia. Penso che i migliori titoli disponibili in italiano siano quelli firmati da Enrico Cosimi, Andrea De Paoli o Riccardo Scivales, tecnici e scorrevoli allo stesso tempo.

Dal momento che le classifiche, così spesso utilizzate per i chitarristi, sono poco comuni in relazione ai tastieristi, facciamone una: quali sono i 10 musicisti fondamentali per conoscere lo strumento e la sua evoluzione? C’è posto anche per musicisti italiani?
G.M.: Comincerei dal più importante tastierista italiano, che non ho difficoltà a identificare con Claudio Simonetti, indimenticabile nei Goblin ed esemplare nella sua carriera trasversale che si è concretizzata in operazioni molto diverse tra loro, dal lavoro in studio al fianco di Antonello Venditti e Patty Pravo a iconiche – e tutt’altro che banali – produzioni meno impegnate come il celebre Gioca Jouer. Provo a mettere in fila altri talentuosi pionieri, motivando delle scelte che però rimangono del tutto personali. Partirei da Jerry Lee Lewis, che ha dato fuoco al suo pianoforte ben prima che Jimi Hendrix facesse lo stesso con la sua chitarra. Ray Manzarek, prima di altri nel rock, ha fatto di necessità virtù “inventando” un modo di suonare compatibile con la mancanza di un bassista di ruolo nei suoi Doors. L’incontenibile Keith Emerson, dagli innumerevoli talenti, ha suonato addirittura due organi Hammond contemporaneamente, per non parlare del coraggio che ha avuto nel portare sul palco uno strumento grande come un centralino telefonico e instabile come il plutonio. Jon Lord, per rivaleggiare con Ritchie Blackmore, ha collegato il suo organo Hammond a un amplificatore per chitarre con risultati formidabili. Brian Eno, dal vivo con i Roxy Music, è stato il primo musicista a esibirsi in un contesto rock con un sintetizzatore soltanto. Herbie Hancock ha collaborato praticamente con chiunque, registrando ogni tipo di strumento a tastiera, dal pianoforte con Miles Davis ai sintetizzatori con Carlos Santana, senza dimenticare la lunga e prolifica parentesi solista. Il francese Jean-Michel Jarre – che ha reso “calda” e accessibile la “fredda” e complessa musica elettronica – occupa tuttora alcune delle venti posizioni nel Guinness dei primati per i più grandi concerti della storia. Nel 1979 Gary Numan, chitarrista punk prestato alle tastiere, ha “osato” pubblicare un disco senza chitarre arrivando primo in classifica nel Regno Unito. Tori Amos, negli anni del grunge, ha rilanciato il pianoforte nelle classifiche internazionali. Jordan Rudess, una volta entrato nei Dream Theater, ha impressionato i tastieristi di tutto il mondo governando contemporaneamente decine di suoni e di campioni provenienti da una singola workstation, in largo anticipo sulla computer music come la intendiamo oggi. E purtroppo sono già arrivato a undici…

“La chitarra” mette nero su bianco “la storia, le curiosità e gli artisti che l’hanno resa immortale”, come specifica il sottotitolo. Parliamo di uno strumento che, senza pericolo di smentita, è la colonna portante della musica leggera e non solo. Come e da dove nasce lo strapotere della sei corde sugli altri strumenti?
Adriano Gasperetti: La storia della chitarra è caratterizzata da leggende, ipotesi, storie nascoste. Ad esempio non se ne conosce l’esatta origine, le versioni su questo sono tante. E, paradossalmente, pur essendo nell’immaginario comune il più amato, apprezzato, ricercato, in realtà è l’armonica lo strumento più venduto in assoluto. Detto questo, però, la chitarra è lo strumento di tutti e per tutti. E c’è indubbiamente la maneggevolezza che gioca a suo favore: portare un pianoforte in spiaggia o sotto la finestra della persona amata per una serenata è abbastanza complicato… Facendo esempi pratici, parliamo del re del blues Robert Johnson, e siamo nella prima metà del 900. Secondo la leggenda avrebbe venduto l’anima al diavolo per imparare a suonare la chitarra. Voleva diventare un grande chitarrista, per suonare, anche lui, nei locali che affollavano il Mississippi. Una tecnica imparata rapidamente e che sfruttò per scrivere i più grandi classici della storia del blues. E poi più recenti il genio di Jimi Hendrix, le atmosfere della chitarra di David Gilmour, la potenza di Van Halen, che si costruirà la sua ‘Frankenstrat’, come pure Brian May. Sono le storie e le tracce di questi grandi artisti che hanno contribuito in maniera determinante alla rapida ascesa al successo della chitarra. Perché ancora oggi l’assolo di Hendrix in qualsiasi dei suoi pezzi influenza generazioni di musicisti. O la distruzione delle chitarre sul palco, nate da Jeff Beck, proseguite dagli Who e da Hendrix stesso, vengono riprese ancora oggi seppur con diverse motivazioni lontanissime rispetto a quelle di questi grandissimi artisti. Che la chitarra sia tuttora lo strumento per eccellenza appare evidente anche da scelte fatte da determinati artisti. Ad esempio i Jon Spencer Blues Explosion, band punk blues statunitense, porta sul palco e in sala d’incisione batteria e due chitarre lasciando fuori il basso. Come i quasi omonimi italiani Bud Spencer Blues Explosion, batteria e la splendida chitarra di Adriano Viterbini. Del basso, nemmeno l’ombra o quasi. Al contrario, invece, sono una rarità quelle realtà musicali in cui la chitarra solista o quella ritmica non ricoprono un ruolo fondamentale, a malapena comprimario. Come per i Weather Report: era il basso del magnifico Jaco Pastorius a farla da padrone e da guida. Nella famosissima Take Five del Dave Brubeck Quartet, pianoforte, sax, basso e batteria gli strumenti prediletti, l’assolo è tutto della batteria, forse è il primo in assoluto nella storia. Praticità, necessità, scelte artistiche e la voglia di emulare artisti: c’è questo, e non solo, dietro.

Dal padre Robert Johnson a Jimi Hendrix, da Pete Townshend a Eddie van Halen, passando per Neil Young e John Lennon, ciascun artista esaminato nel tuo saggio, nell’immaginario, è un tutt’uno con il suo strumento. Possiamo parlare della loro predilezione per la Fender, la Gibson, la Gretsch o qualsiasi altro iconico marchio?
A.G.: Certamente. Infatti in apertura del mio libro, ho messo citazioni che confermano proprio questo aspetto. Ci sono chitarristi che hanno suonato esclusivamente modelli Fender o, di contro, altri che hanno preferito una produzione della Gibson. Keith Richards non ha mai nascosto la propria predilezione per le chitarre del liutaio Leo Fender, addirittura paragona una Strat ad uno Stradivari. Di contro, Slash quasi rimpiange di non aver scelto prima una Gibson, considerando errori e tempo perso quello passato con altre sei corde. E per far capire quanto preferisca una Gibson, nel suo linguaggio colorito ma efficace, sostiene che stare in una stanza piena di Les Paul è come stare in una stanza piena di ragazze nude. E poi lui, Jimi Hendrix. Provando a chiudere gli occhi, mettendo magari sul piatto album che testimoniano la sua storica esibizione a Woodstock, per gli appassionati è scontato ‘vederlo’ suonare la sua Fender Stratocaster bianca, la olimpic white era un suo classico. Va però detto che non ha disdegnato neanche la Gibson, anche se soprattutto per un modello in particolare, la Flying-V, la chitarra a ‘V’ rovesciata che Hendrix scelse per il Festival dell’Isola di Wight. C’è un episodio famosissimo legato proprio a Hendrix che potrebbe far pensare ad un distacco totale, quasi ad un menefreghismo, da parte sua nei confronti della chitarra. E’ il 1967, siamo a Monterey, per il Festival considerato precursore di quello di Woodstock che si svolgerà due anni dopo. Per mezz’ora il mancino di Seattle conquista il pubblico con uno spettacolo intenso ed esplosivo. E poi inizia uno show nello show, suonando, amando, quasi possedendo la sua Stratocaster rossa e che poi a mano aveva modificato dipingendola con motivi psichedelici. Dopo averla suonata mentre faceva una capriola senza alcun tentennamento e poi ancora dietro la schiena, decide di distruggerla dandole fuoco. Appunto, distruggerla. Un gesto che invece ne nasconde uno d’amore. “Quando ho bruciato la mia chitarra- racconterà in una intervista- fu come un sacrificio. Si sacrificano le cose che si amano. Io amo la mia chitarra”. Un atto d’amore che testimonia la predilezione di Hendrix per la chitarra in quanto strumento, nello specifico per la Fender. A proposito di fuoco e fiamme, è entrata nel mito la ‘Lucille’ di B. B. King. Era ancora agli inizi della sua carriera quando rischiò di morire per recuperare la sua chitarra, una la Gibson ES-335, che rischiava di finire bruciata all’interno di un nightclub, a causa di un incendio scoppiato durante una lite tra due uomini. Addirittura, per omaggiarlo, la Gibson metterà in commercio, nel 1980, una ES-345 che non aveva i famosi buchi ad ‘effe’. Lo stesso vale per Neil Young, che per incidere gran parte dei suoi storici pezzi, come quelli tratti dal suo capolavoro, Harvest, optò, in fase di registrazione, per una Gibson Les Paul Goldtop del 1952, che battezzò con i nomignolo ‘Old Black’, presumibilmente legato alla colorazione della stessa chitarra. Ci sono poi casi particolari, quasi estremi, come quello di Eddie Van Halen e la sua Frankenstrat, la ‘Monster Guitar’, che nasce dal suo genio e soprattutto dalla sua voglia di sperimentare e di ricercare la perfezione. Quelli che lui considerava errori nelle chitarre, puntava a correggerli. Nodo centrale, che portò infatti alla nascita della Frankenstrat, una via di mezzo tra il leggendario mostro nato dall’idea di Mary Shelley, Frankenstein, e una Stratocaster. Cercò infatti di combinare caratteristiche di una Gibson con quelle di una Fender. Ci sono indubbiamente casi in cui la predilezione spicca nelle scelte di determinati artisti piuttosto che di altri. La sensazione, però, è che a quei tempi si provava, si suonava, e dopo arrivava la domanda: “Ok, che chitarra è?”.