L’angolo di Michele Anselmi
“Styx” sta per Stige. Sì, uno dei cinque fiumi degli inferi, secondo la mitologia greca e romana poi ripresa da Dante; esso si estendeva in nove grandi meandri, a formare la palude Stigia, che ostacolava la via per arrivare al vestibolo dell’oltretomba. Perché non tradurre il titolo del film tedesco di Wolfgang Fischer nel momento in cui lo si fa uscire in Italia, giovedì 15 novembre, per meritoria iniziativa di Cineclub Internazionale? Non capisco proprio, mi pare insensato, anche perché quel riferimento mitologico è altamente simbolico, quindi va colto, considerata la drammatica storia in campo.
Ha spiegato infatti il cineasta, presentando il suo “Styx” a Roma: “Il mio film vuole essere una metafora che invita al senso di responsabilità. Così come la protagonista, da sola, non può risolvere un problema di quella portata, allo stesso modo nemmeno gli Stati possono pensare che a farsi carico di una tragedia umana come l’immigrazione sia un solo Paese. Solo insieme si può trovare una reale soluzione”. Anche per questo, probabilmente, “Styx” s’è aggiudicato il premio della Giuria ecumenica alla “Berlinale” 2018 e concorre al Premio Lux del Parlamento europeo.
La protagonista di cui parla Fischer si chiama Rike, è una bella e tosta dottoressa di Colonia che lavora sulle ambulanze, abituata a vedere in faccia la morte e la sofferenza. Anche per questo, forse, decide di prendersi una lunga vacanza, salendo sulla sua barca a vela di dieci metri ancorata nel porto di Gibilterra, lì dove le bertucce si aggirano tranquille, tra tetti, muri e automobili. La AsaGray è moderna e attrezzatissima, tecnologicamente perfetta, e tale deve essere perché Rike vuole andare molto lontano, all’isola di Ascensione, un paradiso tropicale ricolmo di piante rare in mezzo all’Oceano Atlantico, tra Africa e Sudamerica, non troppo distante da Sant’Elena, dove morì Napoleone Bonaparte.
Un po’ come François Cluzet nel film “In solitario” o Robert Redford nell’incipit di “All Is Lost – Tutto è perduto”, Rike si destreggia con perizia in quel viaggio a suo modo avventuroso: metodica, calma, razionale, forte fisicamente, fiduciosa in se stessa, rassicurata dalle dotazioni tecniche, in contatto radio con un mercantile che segue, suppergiù, la sua rotta.
Neanche una tempesta col vento a forza 9 la destabilizza più di tanto. Ma poi, risvegliandosi nella bonaccia non troppo distante dalle coste della Mauritania, la donna nota a non troppa distanza un peschereccio alla deriva, pieno di migranti allo stremo, assetati e affamati. Alcuni si gettano nell’acqua dirigendosi verso l’AsaGray, quasi tutti affogano, lei, nonostante l’invito della Guardia Costiera a non immischiarsi, ne raccoglie uno, un ragazzino nero, più morto che vivo. Si chiama Kingsley, trema dal freddo, ha bruciature chimiche, forse non mangia da giorni. La felpa bianca con il numero 7 di Ronaldo (altra metafora?) sulla schiena ormai è da buttare via per quanto è lercia e fradicia.
Ci fermiamo qui, perché “Styx” è un film diviso in due: il prima e il dopo, il viaggio solitario cadenzato dai ritmi di una navigazione perfetta, nella bellezza stordente delle albe e dei tramonti, il dilemma morale col quale deve misurarsi Rike di fronte alla tragedia che si consuma sotto i suoi occhi. Cercava il Paradiso, tha trovato l’Inferno.
A differenza di quanto succedeva in “Terraferma” del nostro Emanuele Crialese, le cose si complicheranno parecchio; ma, appunto, vale la pena di vedere il film: girato dalle parti di Malta, nella più totale assenza di musica (grazie a Dio), con una cinepresa di cui quasi non si avverte la presenza per quanto è discreta e funzionale al taglio della vicenda.
Sono molte le domande che propone “Styx”. Sulla “legge del mare”, sul ritardo colpevole dei soccorsi, sul disinteresse cinico nei confronti dei “migranti” abbandonati a se stessi, sull’efficacia, appunto, di un gesto isolato per quanto caritatevole e nobile. Il mutismo di Rike, nella scena finale, sembra dire molto, forse sin troppo, nella prospettiva del regista. Ma l’attrice Susanna Wolff, velista anche nella vita vera, pilota il timone del film con la giusta dose di fragile grinta, l’ossimoro è voluto: capace di badare a se stessa, da occidentale perfetta, finché non dovrà fare i conti con l’Inatteso che non viene dagli elementi della natura.
Michele Anselmi