La Festa di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor
«Dammi tre parole / sole cuore amore» cinguettava la canzone di Valeria Rossi, un inatteso successo, in chiave di tormentone estivo, nel lontano 2001. È partito da lì Daniele Vicari, romano, classe 1967, per intitolare il suo nuovo film, che arriva a quattro anni dal durissimo “Diaz – Non pulire questo sangue” sui fatti di Genova. «Un film semplice, come il verso della canzone da cui è tratto, come semplici sono le esistenze di cui racconta la storia» spiega sul catalogo della Festa di Roma, dove il film, il primo dei quattro italiani della Selezione ufficiale, è passato oggi.
Storie normali di gente normale, anche se il titolo va letto forse per antifrasi, pur contenendo dentro di sé alcune chiavi di lettura: la solitudine dei personaggi (più che il sole inteso come astro), un cuore ballerino e irregolare, l’amore etero e omosessuale che fa comunque soffrire.
Purtroppo, però, “Sole cuore amore” non è una riuscita. Vicari è cineasta solido e sensibile insieme, con un preciso punto di vista “politico” su questa Italia sempre più precaria e infiacchita, a suo modo feroce con i deboli e distratta verso il talento. Ma stavolta qualcosa sembra funzionare nell’amalgama degli elementi: il film gira un po’ a vuoto, non trova, a parere di chi scrive, proprio quella «giusta distanza» rivendicata dall’autore, si affida a sfocature estetiche e montaggi incrociati che alla fine poco aggiungono al nucleo emotivo del dramma.
Ogni mattina a Eli (Elisa?) suona la sveglia alle 4.30. Ancora bella e giovane, ma già madre di quattro figli, la donna impiega due ore per arrivare da Torvaianica al posto di lavoro, un bar dalle parti della Tuscolana. Eli è sorridente, piace ai clienti, svelta e intraprendente, ma quella vita faticosa la sta devastando, anche perché il marito è senza lavoro e con 800 euro al mese non si va avanti. Vale (Valeria?) invece torna a casa a notte fonda, mentre l’amica Eli sta uscendo. Danzatrice e performer, è single, in rotta con sua madre e forse infatuata della sua compagna di spettacoli in discoteche e feste private. Di giorno Vale si occupa dei figli di Eli, li porta a spasso o li aiuta a fare i compiti.
Partendo da esperienze variamente autobiografiche, Vicari intreccia le due storie con piglio realistico, molto confidando sull’immediatezza dialettale, la descrizione degli ambienti, la mobilità nervosa della cinepresa; di contro la potenza cromatica del rosso (il cappottino di Eli, i costumi Vale) e il sassofono jazz di Stefano Di Battista introducono elementi di “invenzione” volti, si direbbe, a ispessire metaforicamente la rappresentazione di un quotidiano intriso di razzismo, avidità, piccola criminalità.
Alla fine il film resta in bilico, inespresso, con troppa voglia di dire e suggerire, un po’ si rimpiange la sobria espressività del cinema “sociale” dei fratelli Dardenne, di Ken Loach, di Stéphane Brizé, di Laurent Cantet. Come al solito Isabella Ragonese, una delle migliori interpreti a disposizione del cinema italiano, è brava, intensa, cangiante, pure a suo agio, lei è che siciliana, nell’esprimersi nel proletario romanesco di Eli. Mentre Eva Grieco dà corpo all’infelice Vale, ballerina e donna irrisolta, sempre in cerca di una maschera.
* * *
Altre ingiustizie, ben più lontane e sanguinarie, prorompono da “The Birth of a Nation”, il film-caso del regista e attore nero Nate Parker. Naturalmente il riferimento esplicito al classico di David W. Griffith “Nascita di una Nazione”, 1915, accusato di razzismo, odio e pregiudizio nei confronti degli schiavi, è del tutto voluto. Parker, oggi alle prese con una vecchia accusa di stupro per la quale fu assolto, scrive infatti papale papale: «Riutilizzando questo titolo, spero di riparare a un’ingiustizia». Storia tragicamente vera, quella di Nathan Turner: nato schiavo nella contea di Southampton, Virginia, morì impiccato nel 1831 dopo aver guidato a colpi di accetta una rivolta contro i bianchi insieme a una settantina di afro-americani ribelli. Il suo corpo fu scuoiato, la pelle usata per fare un portamonete e rilegare libri, la sua carne trasformata in grasso, perché non restasse nulla.
Il film, probabile candidato agli Oscar, ne fa una sorta di “Braveheart” nero, nobile e impavido, un eroe antesignano dei fratelli neri che combatteranno, trent’anni dopo, nell’esercito dell’Unione contro i confederati del Sud (c’è un bel film sul tema, “Glory”, con Denzel Washinton e Matthew Broderick). Parker ricostruisce con dovizia il percorso di questo giovane schiavo che da piccolo, istruito dalla padrona bianca, imparò a leggere la Bibbia fino a diventare un carismatico predicatore usato dagli stessi schiavisti per sedare, coi suoi sermoni, marginali fenomeni di rivolta nelle piantagioni di cotone. Poi, nel crescendo di torture e privazioni subite dai neri, la crisi di Nathan, la decisione di passare all’azione nella speranza di una sollevazione generale. Che non ci fu.
Parker non risparmia dettagli cruenti da far chiudere gli occhi, e il suo film, intriso di magia profetica, a tratti ricorda “12 anni schiavo”: ma è nobilmente retorico, onesto nel raccontare anche la vita dei proprietari terrieri, e necessario perché quella ferita sembra non chiudersi mai.
Michele Anselmi