L’angolo di Michele Anselmi
Un organizzatore di rassegne mi chiede: “Ma perché il cinema francese è più bello del nostro?”. Non ho dubbi: perché è più vario, curioso e profondo; perché è meglio scritto, diretto e recitato; perché non cerca scorciatoie, fa nomi e cognomi se ricostruisce casi giudiziari e usa con intelligenza la musica; soprattutto perché custodisce sempre uno sguardo sulla vita vera, mondo del lavoro incluso, interrogandosi ogni volta sullo stile da applicare alla storia scelta.
Lo so: i film transalpini non vanno bene al botteghino italiano, come i nostri del resto in Francia, ma basterebbe pensare, solo per restare alle ultime settimane, a titoli come “Maigret”, “I figli degli altri” e “La notte del 12” o a questo “La vita è una danza” che esce giovedì 6 ottobre targato Bim (per non dire di “Illusioni perdute” o “Athena” rintracciabili sulle piattaforme). L’uno è diverso dall’altro, non sempre sono riusciti, ma tutti o quasi sfoderano una fisionomia precisa, anche estetica.
“La vita è una danza” è il nuovo film di Cédric Klapisch, classe 1961, noto specialmente per “L’appartamento spagnolo”, ma pure animatore della serie Netflix “Chiami il mio agente!”. In francese si chiama “En corps”, più o meno “nel corpo”, ma un’amica parigina mi fa notare che, nella pronuncia, la locuzione suona come “encore”, cioè “ancora”. Il titolo italiano è più banalotto: mi auguro che smuova comunque l’interesse di quegli spettatori ancora capaci di uscire di casa (non c’è bisogno di essere patiti di danza per apprezzarlo).
La ventiseienne promessa del balletto classico Elise Gautier scopre, in attesa di uscire sul palco per “La Bayadère”, che il partner se la fa con un’altra. Un passo acrobatico finisce rovinosamente e lei si gioca la caviglia: niente danza per due anni, forse servirà un intervento chirurgico. Sembra tutto già visto, ma Klapisch ne fa lo spunto per un apologo, non peregrino, sui casi della vita, la forza di volontà, la duttilità del talento, la distrazione dei padri, insomma sul rimettersi ancora in gioco.
Marion Barbeau, vera étoile dell’Opéra de Paris, presta il suo corpo agile e armonioso, anche il viso incantevole, alla sua Elise: sulle prime tramortita dal doppio shock, professionale e sentimentale, poi rassegnata al peggio a causa della zoppia. Con una coppia di amici cuochi accetta di lavorare per una matura signora, pure lei zoppa, che affitta una ridente magione in Bretagna ad artisti in cerca di una sala prove; e lì, tra una schermaglia amorosa e tante carote da pelare, Elise ritrova la forza di provarci, incoraggiata dal coreografo Hofesh Shechter, nei panni di sé stesso, alle prese con un fiammeggiante spettacolo di danza contemporanea. Niente tutù e scarpe da piroetta, stavolta, ma non è detto che sia un ripiego.
Dopo un incipit all’insegna della suspense, col pubblico in sala e la tensione che sale prima dell’incidente, Klapisch è accorto nel dosare gli ingredienti, facendo di “La vita è una danza” una storia a suo modo universale. In fondo chi di noi non ha dovuto fare i conti con una faticosa riabilitazione fisica, con la paura di non farcela?
La cinepresa quasi non si sente in questo film pop e sofisticato insieme, pieno di situazioni buffe, anche spassose, che intreccia bellezza dei corpi e fragilità dei sentimenti, spunti femministi e tramonti da love-story. Ma tutto molto meditato, le quasi due ore non si sentono.
Di Marion Barbeau, che in fondo dà vita a un personaggio sottilmente rohmeriano, s’è detto, ma anche il resto della compagnia non delude: da François Civil e Pio Marmaï, da Souhella Yacoub a Muriel Rubin, naturalmente senza dimenticare Denis Podalydès che fa il padre di Elise, un avvocato anaffettivo e svagato, così preso da una certa idea di Cultura, con la c maiuscola, da non accorgersi delle travolgenti risorse umane/artistiche della figlia.
Michele Anselmi