Colori ovunque. Cobalto e rosso, verde e turchese, tende di pizzo blu alle finestre. Rossetto scarlatto, carne di ciliegia. Imperversa il verde: foglie, alberi, fitta la vegetazione ricopre una lussureggiante Rio De Janeiro. L’aria si appiccica alla pelle, agli indumenti, densa di calore. Guida sdraiata sul letto, giovane e innocente, ingenua e innamorata. Avida succhia una pesca e parla di sesso. L’eccitazione di un marinaio che la aspetta fuori dalla finestra, l’emozionante anticipazione dell’incontro. Addosso un abito scollato, implora la sorella di coprirla. Eurídice accetta a malincuore, pervasa da incombenti premonizioni. Passano i giorni e quel che rimane è solo vana attesa e silenzio. La giovane nasconde la faccia nel cuscino soffocando singhiozzi, aspirando forte il profumo di Guida. “Prima c’era il sole, ora sta piovendo.” Incorniciata da due colonne, una oscura, l’altra rosa tenue, la notte di Rio è illuminata da luci lontane.

Il brasiliano Karim Aïnouz adatta il romanzo di Martha Batalha del 2015: La vita invisibile di Eurídice Gusmāo. Il regista (Madame Satā) gareggia a Cannes nella sezione Un certain regard (aggiudicandosi il primo premio) condensando un libro che si estende per diversi decenni, dal 1934 in poi, fino a occuparsi esclusivamente degli anni ’50, arco di tempo in cui le sorelle, pur proprietà di padri e mariti, saranno testimoni dell’alba di importanti cambiamenti. L’autore mantiene intatte le fondamenta dell’opera letteraria, raccontando la storia di una famiglia divisa tramite inquadrature e strutture classiche. Le riprese di Hélène Louvart sono ovunque sontuose, cariche di aggressività e pathos nelle scene cruciali di sesso e violenza. Il montaggio di Heike Parplies lega le inquadrature con fluidità lieve. La storia è raccontata da voci fuori campo. Parole e lettere tra due sorelle: amiche, complici, indispensabili l’una all’altra, Eurídice (una Carol Duarte in stato di grazia) e Guida (Julia Stockler, splendida e sensuale) saranno costrette a separarsi dalle circostanze della vita, vittime di un padre padrone (António Fonseca) che le dividerà per sempre. Entrambe vivranno inconsapevolmente esistenze parallele in diverse parti della stessa città.
C’è un contrasto intenso tra la relativa felicità di Guida – costretta a dividersi tra due lavori, perennemente in lutto per la perdita della sorella – e la vuota esistenza di Eurídice, la sua realizzazione professionale vanificata dal marito e dal padre. Eurídice vuole essere ammessa al conservatorio di Vienna, ormai suonare il pianoforte a casa non la soddisfa più. Il fatto che Antenor si ostini a non comprendere le motivazioni della moglie riassume in modo succinto la comprensione limitata degli uomini dell’epoca e non solo riguardo alle pulsioni delle donne, al di là dei ruoli di moglie, madre e casalinga.

Se il film non si sofferma sulle radici greche del nome del personaggio principale, sembra tuttavia sottilmente significativo, reinterpretando il mito di Orfeo, il fatto che la musica non basti a salvare Eurídice, se non dall’Inferno, da una vita mortale di intorpidimento.
Nonostante le numerose rappresentazioni di crudele insensibilità, ingiustizia quotidiana e delusione cronica, La vita invisibile di Eurídice Gusmāo è un dramma che celebra la resistenza di donne che sopportano e lottano contro esistenze abbattute. La modulazione esperta del tono di Ainouz assicura che il lungo film sorprenda continuamente, attimo per attimo.
Il tempo è scandito dall’uso affascinante della partitura di Schiefer, combinato con passaggi al piano di Liszt, Grieg e Chopin. In nessun luogo, tuttavia, la musica è più potente della scena in cui Eurídice, giunta finalmente al provino per l’ammissione al Conservatorio, suona lo Studio n.9 Op.10 di Chopin in un trionfo attenuato ancora una volta dalla schiacciante realtà. La vita invisibile di Eurídice Gusmāo è nelle sale italiane da giovedì 12 settembre.

Chiara Roggino