L’angolo di Michele Anselmi 

Bisognerebbe ringraziare Matteo Rovere, perlomeno io lo ringrazio, perché con la sua società Grøenlandia sta provando a raccontare storie diverse, eccentriche, non convenzionali, sia al cinema sia sulle piattaforme digitali. Penso, per dire, alla miniserie “La legge di Lidia Poët” per Netflix o al recentissimo “Mixed by Erry” di Sydney Sibilia, ancora in giro. Rientra nel novero questo “Delta” di Michele Vannucci, da Rovere prodotto insieme a Giovanni Pompili e Raicinema. Lo si potrà vedere nelle sale da giovedì 23 marzo, distribuito da Adler Enternainment, ma intanto oggi è stato presentato alla stampa.
L’hanno definito “un western fluviale”, e certo il delta in questione, quello del Po tra Emilia-Romagna e Veneto, così potente e “di confine”, si presta a suggestioni americane, tendenza paludi della Louisiana. Un’ambientazione forte, con personaggi disperati che si perdono nella natura, talvolta affogando in chiave letterale e metaforica; infatti parecchi registi, da Andrea Segre ad Alessandro Rossetto, da Daniele Vicari allo scomparso Carlo Mazzacurati, si sono inoltrati in quelle acque lutulente alla foce del Po (per non dire, tornando molto indietro nel tempo, del sesto episodio del rosselliniano “Paisà”).
Vannucci, al suo secondo film dopo “Il più grande sogno”, è rimasto mesmerizzato da quei posti, certo densi di echi visivi e richiami sonori, e ne è venuto fuori un film diviso in due: una prima parte lucida, spessa, di sapore quasi antropologico, allusiva e inquietante; una seconda parte “d’azione”, dove tutto precipita, la violenza ferina esplode, non si capisce bene perché, e il genere prende il sopravvento. Peccato. Si ha la sensazione, vedendo, che sul copione di “Delta” abbiano messo le mani in troppi (lo firmano a otto mani il regista, Massimo Gaudioso, Fabio Natale e Anita Otto), con il risultato di rinchiudere la vicenda, forse all’inizio più ariosa e ramificata, entro i confini di un fosco noir semplificato, negli snodi e nelle psicologie. Più “The Hunted” di William Friedkin che “La caccia” di Arthur Penn, per citare ascendenze hollywoodiane, con una coda nostrana un po’ in stile “Un borghese piccolo piccolo”.
“Passiamo la vita a combattere contro noi stessi per cercare di essere migliori. Ma siamo quello che siamo” teorizza uno dei due antagonisti, e non dirò quale. Osso, ovvero Luigi Lo Cascio, è un mite ambientalista cinquantenne che lavora alla grande chiusa, insieme alla sorella minore: insieme perlustrano con scrupolo il fiume, rilevano inquinamenti, ripuliscono gli argini. Elia, ovvero Alessandro Borghi, è un bracconiere quarantenne appena tornato in Italia con la sua “famiglia” romena: agisce senza licenza, usando l’elettricità per fulminare grandi quantità di pesce e venderlo sottobanco a un traffichino che si finge amico dei pescatori locali.
Insomma, avete capito: la lotta tra poveri si trasforma in tensione sociale, venata di razzismo e xenofobia, da resa dei conti, e quando ci scappa il morto tutto è destinato a precipitare con effetti devastanti su quella piccola comunità fluviale, per la serie: “Questa è casa nostra!”.
Diciamo che c’è più atmosfera che sostanza, nel senso che Vannucci largheggia in canneti irti, riprese dall’alto, alberi rinsecchiti, cieli plumbei, canali acquitrinosi, melma e bellezza; ma non si capisce perché imprimere alla storia una torsione così radicale, veloce, pure inspiegabile. Come se, a un certo punto, qualcuno avesse deciso di trasformare il film in un’altra cosa. Mi sbaglierò. Non manca nemmeno la cantatina in auto al suono di “E la luna bussò” di Loredana Bertè, ma francamente mi pare peggio la compiaciuta sequenza di un funerale rituale nell’acqua bassa, con la cinepresa che riprende frontalmente Osso mentre procede affranto verso lo spettatore.
La fotografia di Matteo Vieille è intonata al clima invernale, mentre le musiche di Teho Teardo rinforzano la minaccia incombente. Leggo che il regista s’è ispirato a un libro di Paolo Rumiz sul Po, “Morimondo” (Feltrinelli), e va benissimo; così come è apprezzabile lo sforzo di Lo Cascio nell’esprimersi con rassicurante cadenza emiliana, mentre Borghi, pure coproduttore, mette folto barbone, corpo muscoloso, rude laconicità e armonica a bocca al servizio del “forestiero” destinato, senza volerlo, a scatenare la guerra nel delta. A quanto pare, dopo “Le otto montagne” e “The Hanging Sun” molto gli piace mettersi in gioco sul piano della prova fisica estrema.

Michele Anselmi