L’angolo di Michele Anselmi
Bisogna essere grati a Teodora Film, perlomeno io lo sono, per aver acquistato “L’amore secondo Dalva”, da giovedì 11 maggio nei cinema italiani. Non so quanti lo vedranno, spero più spettatori possibile, anche perché l’esordio sorprendente di Emmanuelle Nicot, classe 1985, belga, ci ricorda, con tutto il rispetto dovuto a Nanni Moretti e al suo “Il sol dell’avvenire”, che ci sono tanti bei film d’autore da vedere al cinema, anche se pochi lo sanno.
Il tema potrebbe suonare morbosetto, specie perché applica un punto di vista inedito alla vicenda. Nell’incipit, su fondo nero e schermo quasi quadrato, echeggiano i rumori di un’irruzione di polizia. Qualcuno viene arrestato, una ragazzina, abbigliata all’antica, è presa in custodia dai servizi sociali. Dalva Keller in realtà ha solo 12 anni, non ha ancora avuto le prime mestruazioni, ma si sente una donna fatta: capelli tinti raccolti a chignon, orecchini di perla, rossetto, calze nere, scarpe coi tacchi e abito merlettato con trasparenze.
La fanciulla ricorda un po’ Brooke Shields in “Pretty Baby” di Louis Malle, ma presto scopriamo che non faceva la prostituta, semplicemente è cresciuta insieme al padre pedofilo, Jacques, sessualmente condividendo quel legame “amoroso”, fortissimo, totale, mai sentendosi vittima di torti e sottomissioni.
Il genitore è finito in carcere, in attesa del processo; lei, rifiutando la presenza della madre biologica che pure l’ha cercata a lungo, viene sistemata temporaneamente in un centro d’accoglienza, seguita dal premuroso educatore Jayden. Ma Dalva sembra non capire: scalpita, protesta, fugge, picchia, si rifiuta di vestirsi da ragazzina, continua a mettersi il rossetto, sentendosi una sorta di sensuale “ninfetta”. Solo le parole di Sania, la compagna di stanza, certo non cresciuta nella bambagia, sembrano incrinare le certezze della ragazzina, decisa ad ogni costo a rivedere il padre il carcere a Reims, col permesso perplesso del Pm.
“L’amore secondo Dalva” dura appena 83 minuti, niente rispetto alle misure correnti, ma dentro c’è tutto: uno sguardo non moralistico, la scoperta della propria età, la paura di restare sola, il ritratto di una seduttività meccanica da esercitare nei confronti dei maschi, l’accettazione infine del torto subito.
“Perché un padre e una figlia non possono amarsi?” teorizza lei al primo incontro col giudice; e alla domanda sui rapporti intimi intercorsi col padre pedofilo, lei risponde: “Una donna che ama deve saper fare l’amore”. A suo modo Dalva è un enigma, almeno per buona metà del film: dura, ribelle, anche violenta. Poi succederà qualcosa, e nel rapporto con i ragazzi e le ragazze del centro “la piccola donna” comincia a non sentirsi più una Barbie.
Intendiamoci, non è un film ambiguo, da dibattito sulla pedofilia. La denuncia è chiara, solo che Nicot assume lo sguardo di Dalva in modo da spiazzare volentieri lo spettatore e fargli credere, almeno fino al quarantesimo minuto, che quel rapporto perturbante e illecito fosse davvero “amore”.
Il film, girato a luce naturale, molti dettagli e primi piani, un po’ in stile fratelli Dardenne, non esisterebbe senza la piccola Zelda Samson, che “indossa” quella femminilità all’antica indotta dal padre vizioso come una naturale identità. Poi cambierà. Ma sono bravi tutti, a partire da Alexis Manenti e Fanta Guirassy, che fanno l’educatore paziente e l’amica speciale.
Michele Anselmi