L’angolo di Michele Anselmi

È tornato il cinema “nuchista”, cioè ripreso di nuca, con macchina a mano, un po’ come facevano un tempo i fratelli Dardenne alla ricerca di un coinvolgimento tra emotivo e spoglio. Ma la mia è solo una battuta, perché “L’appuntamento”, che esce giovedì 6 aprile con Teodora, è un film interessante, allusivo, anche duro, usando esso un argomento a prima vista frivolo per parlare di qualcosa tremendamente serio. Del resto siamo a Sarajevo, oggi, anche se i muri delle case mostrano vistosi buchi di proiettili nonostante siano passati tanti anni dalla fine della guerra (novembre 1995, ufficialmente).
Diretto dalla macedone Teona Strugar Mitevska, la regista di “Dio è donna e si chiama Petrunya”, e scritto dalla bosniaca Elma Tataragić partendo da una dolorosa esperienza personale, il film, passato a Venezia 2022, sfodera un’unità di tempo e di luogo nella scansione del racconto. C’è un affollato evento di “speed dating” a pagamento, in un malinconico albergo di Sarajevo. Tra le quaranta persone che si sono iscritte – tutte in cerca di un’anima gemella, di varia età, anche vedove – due sembrano messe a fuoco: la quarantenne Asja, bionda con la frangetta, stretta in un vestitino frusciante, dai piedi sempre in movimento, come in preda a una frenetica voglia di ballo; il coetaneo, o poco più maturo, Zoran, pallido, emaciato, febbricitante, come uscito da un dipinto di Egon Schiele. I due si piacciono, così almeno appare, e una specie di gioco da tavolo li mette l’una di fronte all’altro: si tratta di premere su dei pulsanti rispondendo a domande preventive, del tipo: “Accettereste come un vicino di casa una persona di diversa etnia e religione?”.
Dall’hotel si vede lo sterminato cimitero di Sarajavo, dove riposano migliaia di vittime innocenti uccise dai cecchini in quegli anni feroci che tutti vorrebbero dimenticare. Invece, di lì a poco, Zoran chiede ad Asja, tutto d’un fiato: “Il 1° gennaio del 1993 sei stata ferita da un colpo di fucile? Ti ho sparato io, credo”.
Insomma, avete capito. Altro che appuntamento al buio: Zoran, all’epoca arruolatosi nelle milizie serbo-bosniache, mirò a quella ragazzina sedicenne chiusa in casa, al lume di candela; e oggi vuole conoscerla, chiederle scusa, ottenere forse il suo perdono.
Il film, su tinte smorte e giallognole, trapunto di osservazioni caustiche, divagazioni oniriche e sottolineature allegoriche, non è proprio una passeggiata, ma presto si apprezza la forza di questo confronto serrato tra una vittima e il suo carnefice, benché i ruoli sembrino quasi rovesciarsi, tanti anni dopo. Zoran è pronto a subire una specie di pena, ogni forma di umiliazione, in quel contesto che da festoso si fa drammatico, come se la guerra covasse sotto la cenere; Asja inscena una sorta di “processo” pubblico, mentre i giovani protestano, ma forse vuole solo dimenticare quella sfrangiata cicatrice sulla schiena.
La regista costruisce la partitura quasi come una performance teatrale, anche molto fisica, lasciando forse spazio all’improvvisazione, dentro una strana forma di ritualizzazione degli eventi. Jelena Kordić Kuret e Adnan Omerović sono i due contendenti, in fondo un po’ amanti nel cercarsi e nel respingersi. Uscendo dalla sala ho pensato una sola cosa: le guerre civili sono le peggiori, perché non finiscono mai, si portano dietro veleni, sospetti, rese dei conti tardive.
PS. Il titolo internazionale del film recita “Tha Happiest Man in the World”, ovvero “l’uomo più felice del mondo”. Bizzarro, no?

Michele Anselmi