L’angolo di Michele Anselmi
Un passaggio oggi alla Festa di Roma e da giovedì prossimo, 21 ottobre, nelle sale con Lucky Red. Vai a sapere se “L’Arminuta” di Giuseppe Bonito troverà una sua quota di pubblico, non è un bel momento per il cinema italiano; ma certo molto s’è parlato del romanzo omonimo da cui è tratto. Pubblicato da Einaudi, ha vinto il Campiello nel 2017, facendo della teramana Donatella Di Pietrantonio una scrittrice di successo, molto apprezzata anche dalla critica.
Si respira qualcosa di “L’amica gentile” in questa cupa storia ambientata nell’Abruzzo del 1975, tra la solare Pescara e i lividi entroterra rurali.
“Arminuta”, in dialetto, sta per “ritornata”, e solo con questo nomignolo viene indicata la tredicenne – elegante, slanciata, dai capelli rossi e dai modi educati, di una bellezza quasi “preraffaellita” – che all’inizio del film vediamo recapitare, come fosse un pacco, presso una casa colonica. La dimora è sgarrupata, le stanze sono spoglie, solo la piccola Adriana, un po’ selvatica ma incuriosita, sembra aver voglia di parlare con lei, con la “straniera”, cresciuta in città, in un agio borghese, tra amiche, buone scuole e bagni al mare.
Scopriremo, strada facendo, che i suoi genitori adottivi hanno deciso di riconsegnarla al padre e alla madre naturali: non capiamo bene i motivi, ma certo c’è qualcosa di strano sotto. Accolta come un’aliena, per modi, eloquio e abiti, “l’arminuta” è trattata duramente dalla madre che si liberò di lei tanti anni prima e anche il manesco padre che lavora in una cava non pare troppo contento. Solo il fratello maggiore le dedica attenzioni, sin troppo, forse vedendo in lei una donnina desiderabile, di una bellezza distante e altera, così diversa dalle altre, e in fondo mai vissuta come sorella.
Il film, coprodotto da Maurizio Tedesco, racconta un anno di vita di questa tredicenne, fiera e intelligente, brillante a scuola, capace di non farsi schiantare dagli eventi, benché corrosa, sottopelle, da una domanda da far tremare i polsi: “Perché io sono qui?”.
Nel corso dei quasi 110 minuti accadono parecchi accadimenti, anche torvi e tragici, e non sarebbe giusto anticiparli, perché il film, dietro l’osservazione antropologica, mette a fuoco una condizione umana destinata a chiarirsi in sottofinale, con un palpito di speranza, tra ricomposizione familiare e conoscenza di sé.
Giuseppe Bonito si distacca dallo stile postmoderno di “Figli”, il suo precedente film tratto da un progetto dello scomparso Mattia Torre, per raccontare con toni asprigni, tra qualche sospensione di troppo che non agevola la visione, il lucido smarrimento della ragazza. “Io non sono un pacco postale. Dovete smetterla di spostarmi di qua e di là” protesta “la ritornata”, mentre attorno a lei tutto sembra crollare: sia la durezza contadina sia l’ipocrisia borghese. Lei sta in mezzo e prima o poi dovrà capire chi scegliere.
È la debuttante Sofia Fiore la cosa migliore del film: il suo personaggio attraversa la storia con incedere sicuro e spirito moderno, mostrandosi artefice del proprio destino pure in quel mondo maschile rude o meschino. Fa simpatia anche la piccola Carlotta De Leonardis che fa Adriana, la sorellina scaltra e affettuosa. Meno convincente, diciamo un po’ stereotipato, mi pare il versante degli adulti, benché siano coinvolti attori bravi: Vanessa Scalera, archiviato il look di Imma Tataranni, è la dimessa madre naturale, Fabrizio Ferracane il padre taciturno che dispensa cinghiate, Elena Lietti la matrigna borghese sopraffatta dai condizionamenti sociali.
Visto l’argomento, avrebbe giovato un uso più parco e severo della musica, ma da quell’orecchio i registi italiani, giovani e meno giovani, proprio non ci sentono. La mia è una partita persa.
Michele Anselmi