L’angolo di Michele Anselmi
Magari avrebbe senso ragionare un po’ di più sui titoli che si scelgono. Già la vita è ardua per i film italiani in sala, non mi spiego quindi perché Silvio Soldini abbia voluto complicare le cose battezzando cripticamente “3/19” il suo undicesimo lungometraggio (da giovedì 11 novembre con Vision Distribution, produce Lionello Cerri). Per dire: il mio computer nemmeno archivia un file o una fotografia se scrivo “3/19”. In ogni caso mi pare di aver capito che le due cifre separate da quella barra indichino un tragico concetto: il terzo cadavere non identificato del 2019.
Siamo a Milano, in era pre-Covid, dove l’avvocata d’affari Camilla Corti, una quarantenne tosta, bella, ricca, separata dal marito e con figlia ventenne che la detesta, finisce in frantumi nel giro di poche settimane. Una sera, attraversando una strada sotto la pioggia battente, viene quasi investita da un motorino: lei si fa male a un polso, ma uno dei due giovanotti in sella allo scooter resta a terra, esanime (l’altro, con delle scarpe rosse ai piedi, si rialza e scappa). Solo che nessuno rivendica il corpo del poveretto. Un documento inattendibile porta un nome straniero, Hamed Assan, nato forse nel 2003, proveniente dall’Iraq. Ma sarà vero? Camilla, all’inizio scocciata dalle pastoie burocratiche, sente presto aprirsi una specie di voragine sotto i piedi: prima si colpevolizza pensando di aver attraversato col rosso, poi avvia un’indagine personale per dare un’identità reale a quell’immigrato, che presenta pure cicatrici da tortura.
Soldini, classe 1958, ha un tocco particolare nel parlare di donne, sin dal suo film d’esordio “L’aria serena dell’Ovest” (che bel titolo, a proposito). La sua Camilla Corti è diversa dalle altre “eroine” del suo cinema randagio e malinconico, ma in fondo, strada facendo, anche quest’avvocata in carriera, stressata dai ritmi e dai contratti da redigere, un po’ cinica, troverà il modo di riprendersi la propria vita, secondo le formule care a un certo cinema sui temi della redenzione e della responsabilità, tipo “A proposito di Henry” di Mike Nichols con Harrison Ford.
Naturalmente Milano non è New York e Camilla non si ritrova ad affrontare una dura riabilitazione fisica, ma il meccanismo psicologico, a suo modo universale, è simile: si costruisce il progressivo distacco da un Olimpo meneghino che sembrava perfetto, l’unico possibile e gratificante, per raccontare appunto una rivoluzione interiore, fors’anche un cambio radicale di vita.
Soldini, che appare un attimo e presta la sua voce inconfondibile all’ex marito, arpeggia su motivi a lui cari, facendo risaltare la distanza abissale tra il mondo altolocato degli affari, tutto strategie e complicate parole inglesi, e il mondo della povera gente, degli “invisibili”, dei preti che offrono aiuto ai diseredati, di una coppia di anziani ancora capace di amarsi. In mezzo c’è lei, Camilla, alle prese con una relazione sentimentale alla frutta ma forse toccata dalla quieta umanità di Bruno, l’uomo, suo coetaneo, che dirige l’Obitorio comunale.
Un po’ come succedeva a Tilda Swinton in “Io sono l’amore” di Luca Guadagnino, sia pure in un contesto diverso, una specie di fuga liberatoria dalla città, in questo caso verso il mare ligure, aiuterà Camilla a rimettere insieme i pezzi della propria vita in un finale di speranza che custodisce una bella sorpresa da non rivelare.
Se Kasia Smutniak, sempre in Armani, offre la sua bellezza, dura e armoniosa insieme, alla protagonista della storia, in un succedersi di soprassalti emotivi e stati d’animo, è con l’arrivo in scena di Francesco Colella, ossia Bruno, che il film palpita e fa dimenticare qualche episodio piuttosto inverosimile (il copione è firmato dal regista con Doriana Leondeff e Davide Lantieri). Funzionale alla vicenda la fotografia di Matteo Cocco, ora livida e fredda, ora riscaldata dalla luce naturale. S’intende che Camilla, frequentata da incubi e visioni ricorrenti, custodisce un segreto di cui prima o dopo dovrà liberarsi.
Michele Anselmi