Nel caso di “Lawrence d’Arabia”, quello che Lean fu capace di portare all’attenzione del grande pubblico rappresentava il prodotto di un cinema di qualità per le masse, alla portata soprattutto del pubblico occidentale che, dopo l’ennesimo conflitto, si stava riaprendo alla scoperta di immaginari remoti ed esotici. Per certi versi l’opera si configura come un proseguire di Lean sulla linea di “Il ponte sul fiume Kwai”, in quanto la strada verso il colossal, verso l’avventura esotica sembra spianata. Lawrence risulta un personaggio particolare rispetto ai precedenti eroi di Lean, giacché ha un’identità ben definita, non un personaggio qualunque alle prese con faccende amorose e neanche solo un pronto idealista che deve misurarsi con un contrasto interiore o una situazione critica, come Nicholson.
Quella di Lawrence è una figura che attraversa uno sviluppo travagliato e contorto, egli all’inizio appare come un uomo colto, raffinato, il cui lavoro, quello del cartografo, rende sin dalle prime scene evidente il dominio totale della mente che questo personaggio manifesta su ciò che gli sta intorno.
La scena in cui lo si vede ad esempio spegnere un fiammifero a mani nude, rappresenta la sua personale filosofia, infatti ritiene che qualsiasi fattore esterno o sensazione altro non siano che elaborazioni della mente e che se un uomo si dimostra capace di dominare la sua mente, allora, è capace di avere controllo sulla sua vita.
Ma il confronto in primo luogo con il deserto, con le tribù arabe e i loro costumi ed infine con la guerra lo tramuteranno in una figura piena di contraddizioni, eroe e carnefice, ma allo stesso tempo vittima dei traumi e delle sofferenze. L’opera propone una storia tratta direttamente dall’autobiografia di Lawrence, ossia “I sette pilastri della saggezza”; il testo affascinò Lean a tal punto che, alla semplice proposta di farne un film, cercò già di immaginarsi lunghi tempi di ripresa in posti straordinari. La grande capacità di Robert Bolt permise di ottenere una sceneggiatura capace di esaltare i momenti salienti dell’opera scritta, considerata fin troppo densa per i contenuti che dovevano essere trasposti in opera filmica. Come detto, il fascino per la figura di Lawrence emerge sin dal suo funerale all’inizio del film, dove alcuni partecipanti vengono intervistati, esprimendo opinioni assai diverse tra loro: chi lo definisce un grande guerriero, chi lo definisce un grande poeta e studioso e chi, infine, sottovoce, lo definisce un ciarlatano. Sullo schermo appare la domanda: “Chi è Lawrence?”; la risposta starà allo spettatore dopo aver assistito al film, che altro non è che un immenso flashback, che mostra le vicende precedenti la morte del protagonista. Il fascino è dato dunque dall’ambiguità della sua figura, la cui identità è un insieme di purezza e perversione, di idealismo e cinico utilitarismo.
Il deserto in questo caso rappresenta il luogo della trasformazione, un luogo segnato da grande fascino e bellezza ma considerato come uno degli ambienti più inospitali per l’uomo sul pianeta.
Qui Lawrence è costretto in parte a lasciar andare le sue convinzioni e credenze, per apprendere con l’esperienza la dura legge del deserto, un luogo di tutti e di nessuno allo stesso tempo, dove l’acqua è la ricchezza fondamentale e dove i pozzi rappresentano i confini e le proprietà delle tribù. “Per gran parte della critica, il protagonista del film è il deserto (il motivo principale della colonna sonora, non a caso, sancisce il suo ingresso nel film nel ruolo da protagonista)”(1). Le prime scene nel deserto infatti seguono un’alternanza particolare, alle marce nel territorio arabo accompagnate dalla colonna sonora di Maurice Jarre seguono sequenze di dialoghi e azioni importanti per lo sviluppo della trama immerse nel completo silenzio. La scena del primo contatto con lo sceicco Ali Kharish, interpretato da Omar Sharif, in cui questo uccide la guida di Lawrence per aver bevuto da un pozzo altrui, rappresenta il primo, netto, brutale e silenzioso incontro con altri costumi e leggi. La sequenza si “svolge nell’assoluto silenzio”(2), in contrasto con i suoni che aprono e chiudono l’azione, in questo caso sono il suono della borraccia che cade nel pozzo ed infine il suono dello sparo alla guida di Lawrence, che arriva da una figura che stava cavalcando da lontano verso di loro.
In tutta la narrazione le transizioni sono rapide, capaci di raccontare una storia con un ritmo agile e a tratti incalzante. Sorprende che queste due figure compiono un percorso opposto nella storia: se infatti Lawrence aderisce momentaneamente alla cultura araba, Ali sembra sviluppare atteggiamenti e costumi occidentali, si pensi al suo diventare freddo e più posato rispetto all’inizio, soprattutto durante la strage dei soldati turchi ad opera di Lawrence.
I personaggi in queste si rivelano con estrema rapidità e da subito prendono forma fino a trasformarsi in poche scene, simili cambiamenti affidati ad una diegesi fluida e ben strutturata non risultano mai fuori luogo o privi di logica.
Un fattore abbastanza frequente come nel caso della prima apparizione di Kharish è il contrasto figura/sfondo, che grazie alla luce e al panorama desertico, diventa una costante durante tutta l’opera. I colori dei paesaggi rappresentano un insieme di fattori, oltre che un mero esercizio di stile e spettacolarizzazione dell’immagine, questi comunicano le differenze e in parte gli stati d’animo dei personaggi e il carattere delle situazioni.
Si parla di un metodo di “lallazione testuale”(3), dove articolando le differenze tra ambienti e colori si genera una dimensione che “amplifica il volume espressivo, enunciativo e semantico”(4).
Questa terra incontaminata costringe con le sue difficoltà a tirare fuori la parte più primitiva dell’animo umano, il suo istinto di sopravvivenza, nel caso di Lawrence, anche tramite la guerra, comprenderà di dover sacrificare la parte più idealista per sopravvivere a tutto questo. Ciò è avvalorato da una breve ma significativa inquadratura, quella del sangue che macchia le sabbie del deserto, diretta conseguenza di uno scatto d’ira da parte del protagonista verso una colonna di soldati ottomani in ritirata. La grandezza di una simile scena è affidata all’incredibile interpretazione di Peter O’Toole che, nel breve segmento che separa la carica della colonna turca dal suo avvistamento, offre alla macchina da presa un’espressività trasfigurata. L’eroe, considerato l’astro dell’indipendenza e dell’affermazione del popolo arabo, si tramuta in un folle apostolo del massacro, insidiato da emozioni complesse e profonde, che emergono nel suo urlo rabbioso e nelle risate cariche di sadismo, che gettano un alone ancora più nero sulla strage.
Qui l’istinto più brutale e vendicativo del personaggio emerge in un atto di completa ferocia, rappresentato dalla battuta: “No prisoners”. L’atto della strage vede Lawrence “(…) diventato definitivamente arabo. Ma della peggior specie. Un “povero” beduino”(5). La scena appare come una delle composizioni più complesse del regista, dove prendono piede diversi punti vista, mostrando la titubanza iniziale che precede l’atto violento, per poi rivelare un crescendo di foga e ferocia tra i beduini.
Lawrence mostra un sadismo privo di empatia, la vendetta sembra essere diventata l’unico motivo di “felicità”, appare come un eroe decaduto, privo di lucidità, di ideali e soprattutto non più saggio o razionale.
Questa scena rappresenta una sorta di ritorno alla legge di natura, uno sterile spargimento di sangue tra predatori e prede. La furia resa perfettamente da un montaggio frenetico, che alterna campi medi ai primi piani dei carnefici, risulta in un’ultima insensata crociata dell’ego ferito di Lawrence e non più dell’indipendenza araba.
La caduta del profeta guerriero è completa, le sue vesti bianche e “pure” sono tinte di rosso alla fine dell’attacco, lo sguardo è ancorato al presente, incapace di andare oltre e vedere un futuro, di vedere qualcosa in cui credere davvero.
Lawrence si trova ad essere alla ricerca di sé stesso, cerca un’identità e, fatta sua la causa araba, si ritrova conquistato e terrorizzato dalla cultura dei beduini. Alla fine del suo cammino, vive una condizione di vuoto, data da una mancanza di appartenenza ad uno dei due mondi che conosce: un uomo che come all’inizio torna in una condizione di limbo identitario, senza un’identità definita, con la differenza che rispetto all’inizio è consapevole del peso che una simile condizione comporta, rafforzata da una palese nevrosi, risultato di innumerevoli traumi.
“Nel finale, dopo il colloquio tra Feysal e il generale Allenby, si rende conto di quanto tutte le parti in causa abbiano strumentalizzato l’eroe del deserto”(6).
L’opera realizza una riflessione complessa sul senso della realtà, conteso tra evidenza ed indeterminazione costante. Lean ha saputo realizzare un complesso mosaico, capace di restituire una moltitudine non indifferente di topoi narrativi, da sempre presenti nel suo cinema, come il potenziale distruttivo delle emozioni e la tragicità soggettiva degli ideali.
Un aspetto sicuramente curioso è la presenza di un protagonista che per la prima volta viene rappresentato con dei connotati vagamente religiosi: Lawrence si presenta ironicamente come un profeta guerriero.
A tal proposito bisogna fare riferimento alle scene che seguono la caduta di Aqaba, in cui tra i dialoghi di Lawrence con il capotribù Abu Tayi, interpretato da Anthony Quinn, ne figura uno importante per evidenziare tale “divinizzazione”. Lawrence: “A giorni… tornerò indietro con l’oro” e continua: “Con oro, armi e ogni cosa. Dieci giorni” – Abu Tayi risponde: “Attraverserai il Sinai?” – Lawrence: “perché no?! Mosè l’ha fatto” – Abu Tayi replica: “Mosè era un profeta e prediletto da Dio”. Il dialogo parla chiaro, Lean ha mostrato un protagonista che passa dall’essere un “illuminista del vecchio Continente, (…) a credersi un semi–Dio, discendente di Mosè”(7).
Il film di per sé presenta una suddivisione narrativa in tre parti, ciascuna evidenziata da specifiche caratteristiche, ma sempre centrate sullo sviluppo del protagonista. Non si parla di una disomogenea divisione dei ruoli da protagonista come nel caso di “Il ponte sul fiume Kwai”, dove sono presenti due storyline parallele, ma di un corpo unico, che vuole mostrare le vicende di un singolo personaggio principale.
La parte finale, rispetto all’inizio avventuroso e frenetico, senza dubbio raccoglie la vena tragica di tutta l’opera, mostrando un Lawrence perso, disilluso e cinico, svuotato di qualsiasi ideale o prospettiva, un “eroe profeta” che senza un popolo da servire si fa eremita, vagando nella tristezza e nel delirio. Lo stile leaniano qui è al suo apice, fatto di piani sequenza che dominano la narrazione e mostrano le lunghe marce attraverso il deserto. Forte è il contributo dell’opera di Maurice Jarre, la cui colonna sonora accompagna il film nella sua totalità. La musica è onnipresente e si alterna unicamente al silenzio di alcune scene nel deserto, ma, come ogni grande avventura, la forza delle note conferisce grandezza alle panoramiche e ai campi lunghi, una simile combinazione diventa, in Lean, sinonimo dell’enormità dello scenario, da cui le stesse figure dei personaggi sembrano essere sovrastate.
Giordano Xefteris
NOTE
[1] Daniele Errera, Livio Ricciardelli, Il cinema di David Lean, Edizioni Efesto, Roma, 2018, p. 174
[2] Mario Sesti, David Lean, Il Castoro Cinema, Roma 1988, p. 65
[3] Ivi, p. 67
[4] Ivi, p. 67
[5] Daniele Errera, Livio Ricciardelli, Il cinema di David Lean, Edizioni Efesto, Roma, 2018, p. 175
[6] Ivi, p. 177
[7] Ivi, p. 175