Nel catalogo di Caissa Italia potete trovare “Enzo Jannacci. Canzoni che feriscono” (2019) di Paolo Vites, un libro che sceglie di fare il punto su un musicista unico nel panorama della musica cantautorale italiana e sul disco che meglio di altri lo rappresenta. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Il tuo libro si concentra su “Milano 3.6.2005”, il lavoro che consideri più rappresentativo della carriera del cantautore milanese. Cosa rende così unico il disco e come nasce il progetto di questo libro?
Paolo Vites: Enzo Jannacci, per tanti motivi, tra cui l’impegno lavorativo come chirurgo e medico, ma anche la difficoltà di inserirsi nell’ambiente musicale essendo un personaggio così fuori dalle righe, libero, improvvisatore, geniale, raramente ha goduto della produzione e dell’accompagnamento musicale adeguato nei suoi dischi. Forse era anche impossibile. Ci è però riuscito il figlio, produttore di “Milano 3.6.2005”, per evidenti motivi. Quello che fa grande questo disco è l’assoluta naturalezza con cui è stato registrato, in modo semplice, senza alcuna forzatura, lasciando a Jannacci la possibilità di essere se stesso, tirando fuori la sua carica emotiva straordinaria e la sua capacità di toccare il cuore dell’ascoltatore, quasi fosse un disco dal vivo, accompagnandolo in modo discreto a esprimersi senza cercare di manipolarlo. Il progetto del libro nasce dall’aver avuto la possibilità di conoscerlo poco prima della morte, averlo intervistato più volte e aver intuito la sua unicità. Questo mi ha spinto a riscoprire tutto il suo repertorio tanto da esserne toccato così a fondo dall’aver voluto cimentarmi con un’opera più grande di me.
L’analisi dei testi si confonde volutamente con la notazione e il ricordo personale quasi a voler sostanziare un dialogo con il cantautore. Possiamo parlare di questo procedimento che sembra bordeggiare l’auto-fiction?
P.V.: Non ho mai voluto fare una biografia o un saggio critico. Ne esistono già molti e anche fatti molto bene. Ascoltando le canzoni di Jannacci, come credo sia successo a tutti o quasi, ho trovato una corrispondenza totale con quanto da lui detto e con me stesso: sono io “lo scoppiato” che cerca di scroccare una sigaretta in “Son s’cioppaa”, ad esempio. Ma sono anche la protagonista di “Chissà se è vero”, perché chi non ha subito feroci delusioni d’amore fino a chiedersi se l’amore esiste davvero? Jannacci era capace di abbracciare tutti gli uomini, tutto il loro dolore e la loro voglia di vivere. È comunque un metodo di scrittura che uso quasi sempre, quando trovo un personaggio che mi suscita empatia.
In quella vicinanza agli ultimi che è sempre stata centrale nel lavoro di Jannacci e, forse ancora di più in “Milano 3.6.2005”, emerge la matrice di un’ispirazione e di una sensibilità cristiane. Com’è che l’irriverente Jannacci, che in un memorabile film di Marco Ferreri si perde per la sua ostinazione ad essere ricevuto in udienza dal Papa, arriva ad una tappa del genere?
P.V.: “Milano 3.6.2005” in realtà è un disco antologico che rivisita le cose più belle o a cui lui si sentiva più legato. Lo Jannacci degli anni ‘60 e ‘70, di quel film, era una persona dichiaratamente di sinistra, appartenenza che comunque ha sempre confermato anche nei suoi ultimi anni di vita. Certamente è cambiato negli anni, del suo eventuale percorso di fede non sono in grado di parlare, sono cose intime e private che solo lui potrebbe spiegare. Ma altrettanto certamente nella sua carriera è sempre emersa una forma di carità e di compassione per gli ultimi che straboccava dal suo Io. Si può citare l’episodio di Eluana (“Ci sarebbe bisogno di una carezza del Nazareno”) per dire quanto la sua umanità coincidesse con la fede cristiana, ma nessuno può dire di più al proposito.
La forma aperta, quasi di diario intimo, che scegli di dare al testo, mette in risalto ancora di più i testi forti di un’attualità legata alla passione per gli uomini e le donne raccontate… In che modo anche la personalità di Jannacci ha influito su questo?
P.V.: Ha influito tantissimo. Come ho detto prima, se ascolto una canzone di Jannacci io mi ci ritrovo completamente. Succede con tanti altri autori di canzoni, ma con lui si toccano vertici di empatia difficilmente riscontrabili in altri. Come si può non sentirsi il padre protagonista de “La fotografia”? Un padre con il senso di colpa per aver dato un cattivo esempio, gli errori fatti nella vita, e quel ragazzino morto mentre lui sta lì, con una bottiglia di vino. Siamo tutti così e Jannacci ce lo ha sbattuto in faccia, ma con pietà, non per giudicare. Jannacci era cosciente di avere una ferita dentro di sé, lo ha detto tante volte, quella ferita che tutti abbiamo, la coscienza di non essere adeguati, di sbagliare continuamente, di aver bisogno di aiuto, una ferita che il mondo vuole annichilire e nascondere per manipolarci a suo uso e consumo. Ogni volta che Jannacci canta, questa ferita si spalanca.