Se cerchi “Le cose belle” sui vari siti, scopri che viene etichettato come documentario. Dura circa un’ora e trenta ed è un film meraviglioso. La riprova che ormai i generi non hanno più senso. Tutto ciò che passa su uno schermo è cinema, al di là del formato e della durata. Agostino Ferrente e Giovanni Piperno firmano una delle pagine più struggenti sulla realtà meridionale. A Napoli e dintorni vivono due ragazze e due ragazzi. I loro nomi sono Silvana, Adele, Enzo e Fabio. Pima li vediamo adolescenti con i loro sogni e le loro ansie, tipici di quell’età e di quei luoghi che sembrano dimenticati da Dio. Vorrebbero diventare modelle o dive dello schermo, oppure cantanti o calciatori. Ma si accontenterebbero anche solo di un posto di lavoro. Poi li ritroviamo 13 anni dopo e sono diventati adulti. Tu spettatore ti chiedi: ma come è possibile? Sono attori o sono proprio loro? Certo che sono proprio loro e qui sta il miracolo dei due registi, che attendono tanti anni per tornare a riprendere un primo filmato dal titolo “Intervista a mia madre”.
Succede raramente al cinema di poter vedere l’evolversi dei volti e delle persone, se non nelle opere di finzione. Il trasloco dalla giovinezza alla maturità segna anche la fine dei sogni. Nessuno di loro è diventato quello che sperava. La realtà li ha fagocitati ed è già un miracolo riuscire a sopravvivere in una città dove il degrado è legge, circondata dalla camorra, dal racket dei rifiuti, dal rovinare delle strade e delle case, dall’incedere inarrestabile della miseria. Le cose brutte non le vediamo, ma è come fossero in sovrimpressione dietro le sequenze che scorrono davanti ai nostri occhi. Di fronte a tanto struggimento sembra che l’unico sollievo arrivi dalle canzoni, bellissime, dolcissime, tristissime, allegrissime. Ti entrano nell’anima come solo a Napoli sanno fare, perché non sono più melodie, ma veri racconti popolari, sostituto dei sogni che non si avverano mai. Sono così struggenti queste canzoni -“A’ storia e’ Maria”, “Lui mi fa morire”-“Guagliuncè”, per citarne solo qualcuna, che vorresti non finissero mai. Accompagnano il film, ma non come avviene per le solite colonne sonore, bensì come parte integrante dei fotogrammi, come se anziché ascoltarle le vedessimo scorrere di fronte a noi. Altrettanto indimenticabile la lingua che parlano i protagonisti. Nessuno di loro ha avuto modo di studiare, eppure il loro linguaggio è così dotto e sapiente che ti lascia senza parole. Perché viene da secoli di soprusi e capacità di resistenza al punto che se parlassero come noi non li capiresti. “Aveva ragione Pirandello, ‘la parola del dialetto è la cosa stessa’, perché il dialetto esprime il sentimento mentre la lingua di quella stessa cosa esprime il concetto”, scrive Maria Gandolfi in una splendida recensione su My Movies che vi suggerisco di leggere.
In un panorama così desolato le cose belle quali sono? Semplice: sono le loro vite. Te le porti dietro quando si spengono le luci, ti guardi attorno e vedi i tuoi vicini chi con una lacrima chi con un sorriso.
Roberto Faenza