L’angolo di Michele Anselmi
“Le otto montagne” è un bel film, ricolmo di silenzi e paesaggi, di concetti detti e allusi, di metafore e durezze. Non è necessario amare in modo particolare le Alpi, i sentieri scoscesi, le cime innevate, le ciaspole o le pedule di marca per apprezzarlo, ma posso capire perché il romanzo omonimo di Pietro Cognetti, premio Strega 2017, abbia venduto circa un milione di copie, a mettere insieme i quaranta Paesi in cui è stato pubblicato. Non capisco invece, ma so che è una battaglia persa, perché una storia così profondamente italiana debba essere continuamente “rinforzata” da canzoni in inglese, pure belle per carità, tutte composte dal cantautore svedese Daniel Norgren. Spogliate delle parole e lasciate in forma di musica, avrebbero svolto un ruolo più equilibrato, intonato al clima generale.
Premiato al festival di Cannes e frutto di una coproduzione a tre, per l’Italia c’è la WildSide di Mario Gianani, “Le otto montagne” esce oggi giovedì 22 dicembre, cioè per Natale, con Vision Distribution. Dura 147 minuti, custodisce un andamento lento e solenne, ma non retorico, e certo l’accorta regia firmata dai due cineasti belgi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch mette al riparo il racconto da certe bellurie squisitamente nostrane.
Chi ha letto il romanzo sa di che cosa si parla, chi non l’ha letto saprà vedendo il film, in buona misura fedele alla pagina scritta. Si parte dal 1984, nel paesino montanaro di Grana, sotto il Monte Rosa. Il ragazzino torinese Pietro passa lì le estati, un po’ annoiandosi, finché non conosce un coetaneo più alto di lui, Bruno, cresciuto dalla zia. Pietro è un figlio della città industriale, Bruno un figlio della montagna maestosa.
“Non pensavo di trovare un amico come Bruno nella vita” scandisce l’io narrante; e invece quell’amicizia – così intensa, istintiva, solida, coltivata – attraverserà decenni, fino a una tragica conclusione un po’ in stile “Cinque giorni una estate”, che fu l’ultimo film di Fred Zinnemann.
“Le otto montagne” non esisterebbe, credo, senza la prova maiuscola dei due attori protagonisti da grandi, che sono Luca Marinelli e Alessandro Borghi, rispettivamente classe 1984 e classe 1986. Non giravano un film insieme dai tempi di “Non essere cattivo”, 2015, di Claudio Caligari, sono romani doc, per questo è ammirevole il lavoro compiuto per distaccarsi dalle proprie origini e risultare credibili nell’uso della calata torinese e del “patois” valdostano. Poi stanno bene accanto sullo schermo, con le loro barbe folte e i loro caratteri opposti, sotto quei maglioni spessi e le berrette di lana, ciascuno dei due personaggi evocando, in un classico cine-romanzo di formazione immerso nella bellezza rischiosa e stordente delle cime innevate, una certa idea dell’esistenza.
Pietro è errabondo, curioso, irrequieto, Bruno è stanziale, fattivo, positivo. L’uno, diventato scrittore di successo, arriverà fino in Nepal alla ricerca di sé stesso (il titolo del libro e del film viene da una leggenda appresa lì); l’altro, fallita l’attività tradizionale nel campo dei formaggi, rinuncerà a tutto, anche agli affetti più cari, pur di non muoversi da quella remota baita di montagna ricostruita insieme all’amico.
“Nella sua vita c’era un modo giusto per fare ogni cosa” commenta Pietro parlando di Bruno a un certo punto, e in effetti la forza del film, se piace l’atmosfera meditabonda, sta nel continuo precisarsi di quel rapporto denso e amichevole tra due ragazzini che all’inizio il destino fa incontrare un po’ per caso. Entrambi in rotta con i loro padri, entrambi alla ricerca di una complicità laconica, anche di amori femminili, pur venendo da contesti sociali così differenti.
Vedo, leggendo qua e là del film, che una battuta ha molto colpito la fantasia dei recensori. Per quelli di città la montagna sarebbe legata al concetto vago di Natura, con la maiuscola, a dirne la bellezza indefinita e struggente; per quelli del posto la montagna è fatta di boschi, sentieri, burroni, crepacci, ghiacciai, pietraie, tutte cose reali che si possono indicare con precisione. Magari è proprio così.
Se dei due magnifici attori protagonisti s’è detto, non sono da meno gli altri interpreti variamente coinvolti, specialmente Elena Mietti e Filippo Timi nei ruoli dei genitori di Pietro, oltre che Elisabetta Mazzullo, che fa Lara, la ragazza di origini montanare in bilico, per un po’, tra l’uno e l’altro.
PS. Ieri è arrivata la notizia che “Nostalgia” di Mario Martone non è stato inserito nemmeno nella shortlist di 15 titoli in vista degli Oscar. Mi sbaglierò, ma se la commissione Anica avesse votato per “Le otto montagne” forse le cose sarebbero andate in modo diverso.
Michele Anselmi