L’angolo di Michele Anselmi
Le serie tv fanno bene ai vecchi divi di Hollywood. Prendete Sylvester Stallone in “Tulsa King” che potete trovare su Paramount+ dallo scorso Natale. Non l’avevo mai visto, negli ultimi anni, diciamo pure decenni, così bravo. A 76 anni, grazie a Taylor Sheridan, il creatore pure di “Yellowstone”, ha saputo reinventarsi dimostrando di essere quel notevole attore che è, finalmente affrancato dai ruoli – Rocky e Rambo – ai quali certo tutto deve.
Probabilmente sapete, a causa della massiccia pubblicità. Nei panni di Dwight “the General” Manfredi, Stallone incarna un mafioso 75enne che esce dal carcere dopo cinque lustri per essersi preso sulle spalle un crimine non commesso e salvare così il suo boss. Naturalmente s’aspetterebbe una ricompensa all’altezza del sacrificio, invece il vecchio capo della Famiglia, Vincenzo, lo spedisce a Tulsa, in mezzo all’Oklahoma, la stessa città che fu resa celebre dalla canzone portata al successo da Eric Clapton, e lì deve ricominciare daccapo, adattando i metodi newyorkesi alla nuova realtà un po’ western.
Pizzetto scolpito, completi di sartoria, scarpe di coccodrillo, Manfredi usa arguzia e coercizione, carota e bastone, mettendosi alla testa di un’inattendibile banda di “criminali” per diventare, appunto, il nuovo “re” di Tulsa (poi c’è il versante umano rappresentato dalla figlia che non gli parla da quasi vent’anni e da una tosta poliziotta che molto gli piace e viceversa).
La serie in 9 puntate di circa 40 minuti, ognuna delle quali diretta da un regista diverso, mi pare riuscita nel suo restare in bilico tra atmosfere buffe, colore locale, stereotipi mafiosi e affondi drammatici, e certo “Sly”, ormai un po’ allargatosi di stazza, sembra divertirsi nel riscrivere il cliché del gangster fuori moda che ha letto e studiato dietro le sbarre (cita pure Woody Guthrie e fa battute al vetriolo). Se interessa e siete abbonati a Paramount+, be’ vedetelo in originale coi sottotitoli: la sua voce merita davvero. Si farà una seconda stagione.
Come si diceva, Stallone, reduce da brutti o mediocri film per il cinema, non è l’unico ad aver tratto vantaggio dalla serialità in voga sulle piattaforme digitali. Molte star hollywoodiane, un po’ lasciate ai margini dal cinema per il grande schermo per ruoli da protagonista, hanno afferrato al volo l’occasione, dimostrando una rinnovata “giovinezza” nell’invecchiarsi o nel reinventarsi per il piccolo schermo.
Qualche esempio sul fronte maschile? Kevin Costner, oggi 68, con “Yellowstone” (la quinta stagione parte il 1° marzo su Sky); Harrison Ford, oggi 80, con “1923”, antefatto di “Yellowstone”; Michael Douglas, oggi 78, con “Il metodo Kominsky”; Bryan Cranston, oggi 66, con “Breaking Bad” e “Your Honor”; John Lithgow, oggi 77, prima con “Dexter” e poi con “The Crowne”; Jeff Bridges, oggi 73, con “The Old Man”, sempre accanto a Lightgow; Pierce Brosnan, oggi 69, con “The Son”; Al Pacino, oggi 82, con le due stagioni di “Hunters” e numerosi film tv; Morgan Freeman, oggi 85, con “The Story of God” e altri programmi televisivi di tipo scientifico. Mancano all’appello solo Robert Redford e Dustin Hoffman, e chissà che non bolla in pentola qualcosa per i due arzilli ottantacinquenni.
Poi certo, ci si può anche ritirare dalle scene e fare altro, oppure dedicarsi solo alla regia, se la salute ancora arride. Il 92enne Clint Eastwood, per dire, ormai è improponibile come attore, basterebbe averlo visto in “Cry Macho” in quel ruolo ridicolo, ma sul set sembra ancora capace di dirigere, e bene, il traffico, con senso dello spettacolo e delle storie. Un quieto dinosauro a cui tutti vogliamo bene.
Michele Anselmi