L’angolo di Michele Anselmi 

Non saprei dire se “France” di Bruno Dumont sia “un film disturbante e indisponente sul potere del racconto, delle immagini e i mille misteri della finzione”, come scrive il Sindacato critici segnalandolo alla vigilia dell’uscita nelle sale con Academy Two, giovedì 21 ottobre. Di sicuro è un film spiazzante che non esisterebbe senza la prova prodigiosa di Léa Seydoux, sì la 36enne attrice parigina per la quale l’agente 007 perde la testa nel recente “No Time To Die”.
Il regista Dumont, che tanto fece scandalo all’epoca del suo film d’esordio, “L’età inquieta” del 1997, per via di un’esplicita scena di sesso, non adotta un punto di vista particolarmente originale sui temi del giornalismo televisivo. Nei fatti ci ricorda che le notizie sono costruite come film in sala di montaggio, cioè con tagli, elementi di finzione anche buffa, immagini distorte e spesso decontestualizzate, insomma dentro una sorta di “ipermedialità” artificiosa. Ma la forza di “France”, secondo me, non sta tanto nella denuncia di una pratica legata alla connettività esagerata, bensì allo sguardo che il regista posa sul viso e il corpo di France De Meurs, appunto la protagonista, una specie di Lilli Gruber all’ennesima potenza.
“Sei la più grande giornalista di Francia, France” gongola l’assistente sovraeccitata della star in questione (e certo nel doppiaggio si perde il gioco di parola tra nome e nazione). Capelli biondi, labbra scarlatte, tacchi alti, abiti di Dior con una predilezione per il viola, l’anchorwoman del programma “I” è una regina mediatica.
Nella prima inquadratura Macron in persona (è un sosia perfetto) la cerca in sala prima di dare avvio alla conferenza stampa, e certo la giornalista non si nega al siparietto un po’ all’americana. Ma France ama anche il rischio, così almeno sembra: quindi non disdegna servizi dalle zone calde, dove cadono i proiettili dei mortai, o dai barconi che trasportano poveri migranti scappati dall’Africa.
Per il tono sarcastico viene da pensare un po’ a vecchio sfortunato film di Richard Brooks, “Obiettivo mortale”, con Sean Connery; anche se Dumont vira subito sul “fattore umano”, nel senso che, all’apice della popolarità, la sua France crolla psicologicamente, di botto, nello sgomento del marito e del figlio. Ha investito con la sua auto un giovane fattorino maghrebino, niente di grave, ma quell’evento piomba come una saracinesca sulla sua vita all’insegna di una popolarità fatua, parossistica.
“France” dura 133 minuti, quindi ne succedono di cose, in una chiave tra grottesca e allegorica, con qualche digressione di troppo, e una certa, voluta, insistenza sul viso della protagonista, sempre più rigato dalle lacrime. Perché piange tanto France? La sua è crisi profonda, etica, o si prepara solo a una clamorosa rentrée?
Passato a Cannes 2021, “France” è un film radicalmente ideologico, a suo modo “teorico”, che s’interroga su quella che Dumont chiama “la costante manipolazione della realtà”: infatti le sequenze di guerra ambientate in Africa sono state girate in Puglia e le scene in automobile sono rese con la vecchia tecnica hollywoodiana dei “trasparenti”, per sembrare ancora più finte. Ma suggerisco,di nuovo, di non seguire più di tanto la sostanza del “j’accuse” contro un certo uso del giornalismo effettato; più interessante, a ben vedere, è il ritratto di questa donna dallo sguardo imperscrutabile, che vive dentro una sorta di funerea casa-mausoleo, in bilico tra logiche mercantili, cinismi professionali e fragilità sentimentali. Nel livido epilogo qualcosa si chiarirà.
Léa Seydoux, ripeto, è strepitosa nel dare corpo all’enigma-France, sicché consiglio di cercare la versione in francese coi sottotitoli, ma non sarà facile (la doppia comunque bene Domitilla D’Amico). Le musiche dello scomparso Christophe sono spalmate su tutto, un po’ insensatamente, ma forse fa parte del gioco.

Michele Anselmi