La Mostra di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor
«Il film più leggero dell’anno» recita sul manifesto lo strillo di lancio di “Piuma”. Slogan vagamente rischioso, perché talvolta la leggerezza estrema sconfina nell’inconsistenza. Magari non è stata una grande idea piazzare in concorso l’opus numero 3 di Roan Johnson, cineasta gentile e spiritoso, classe 1974, capace di giocare con le strettoie dell’esistenza e i palpiti generazionali. Non che “Piuma” sia brutto, fa parecchio sorridere, sfodera un andamento pimpante, è recitato bene, proponendosi un po’ come la versione italiana, anzi romana, di “Juno”, senza però possederne lo sguardo profondo e lo stile fantasioso.
Intendiamoci, le commedia fanno bene al clima della gara festivaliera, come dimostrano gli applausi di critica e pubblici andati all’argentino “El ciudanado ilustre”; e tuttavia debbono possedere quel qualcosa in più, in termini di linguaggio e spessore, per trovare riscontro nel palmarès (accadde nel 1997 a “Ovosodo” di Paolo Virzì).
Detto questo, c’è da scommettere che quando uscirà, il 20 ottobre distribuito da Lucky Red, “Piuma” sarà un successo, proprio in virtù della leggerezza programmatica che esibisce: tra affondi dialettali, incastri drammaturgici, pulsioni tardo-adolescenziali, battute azzeccate e personaggi bizzarri.
Piuma è un nome: così Ferro e Cate, cioè Ferruccio e Caterina, poco più che diciottenni, intendono chiamare il baby che aspettano. Non doveva succedere, ma i due fidanzati un po’ scapestrati, in controtendenza rispetta a quanto capita oggi in Italia, decidono di accettare la sfida, nella perplessità dei genitori, soprattutto di lui. «Ma non ci poteva venire gay? Invece no: normale!» esplode il padre toscano di Ferro; non sa, il poveretto, che il peggio deve ancora venire, a causa della proverbiale immaturità del ragazzo.
Impaginata per capitoli, nove naturalmente, quanti i mesi della gravidanza, la commedia è fresca e spigliata, romanissima nello slang usato, trapunta ogni tanto di trovatine surreali per alzare il tiro (i due sognano di nuotare sopra la città, ripresi dall’alto, come le paperelle di plastica disperse nell’oceano di cui si parla). Qualcuno, alla fine della prima proiezione per la stampa, ha gridato «buuu» e «vergogna!», ma niente che possa preoccupare il produttore Carlo Degli Esposti; e comunque in Sala Grande poi sono fioccati gli applausi, come sempre in questi casi.
Il problema del film sta semmai nell’equilibrio degli elementi. Il meccanismo della farsa banalizza un po’ la condizione umana dei personaggi, riducendoli ad amabili bozzetti da cinema: il padre brontolone, la mamma paziente, il nonno svanito, l’altro padre dissennato, la fisioterapista sballata, eccetera. Luigi Fedele e Blu Yoshimi Di Martino risultano naturalmente simpatici nel ruolo dei due protagonisti: irrisolti, confusi e sopraffatti dagli eventi (più lui che lei); e tuttavia, a un passo da una scelta di rinuncia, capaci di ritrovarsi, di sentirsi genitori, pronti a sgusciar fuori dall’eterna adolescenza che li circonda per misurarsi con la realtà. Cioè la nascita di Piuma. Ci sarà un seguito?
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Se il sesso è da ridere nella commedia di Roan Johnson, le pulsioni più segrete del desiderio erotico si colorano invece di coloriture horror nell’altro titolo in concorso, “La región salvaje” del messicano Amat Escalante, autore molto portato dai cinefili. Scrive il regista: «Il film è una visione della lotta per conquistare l’indipendenza da parte di una giovane donna nata e cresciuta in una cultura fortemente maschilista, misogina e omofobica». Vabbè.
La regione selvaggia evocata dal titolo è anche uno stato mentale e fisico, che permette all’insoddisfatta Veronica di vivere orgasmi a ripetizione nella baracca di due strani scienziati-stregoni che lì custodiscono una specie di polipo alieno provvisto di numerosi tentacoli a forma di pene. Ma, per abbandonarsi alle delizie procurate dal “mostro del piacere”, in sé piuttosto pericoloso, bisogna prima essere preparati attraverso un’iniezione che disinibisce e restituisce a una sorta di stato di natura.
Un pastrocchio? Molto. Che Escalante orchestra con toni da thriller fantastico, cupo e allusivo, tra cani minacciosi e nebbie premonitrici; e intanto i personaggi, colti spesso nudi in accoppiamenti tristi e insoddisfacenti, rivelano una sessualità piuttosto contorta. Per dire: c’è un padre che tradisce la giovane moglie con il cognato gay, il quale a sua volta sarà ritrovato in coma dentro un fosso. Dimenticavamo: la “creatura” dai cento peni serve, spiega il regista, «per dare una rappresentazione simbolica all’ambigua complessità dell’Es».
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Sfodera invece un solo pene, ma basta e avanza, il 52enne Rocco Siffredi, al secolo Rocco Antonio Tano, oggetto di un gonfio documentario-ritratto firmato dai francesi Thierry Demaizière e Alban Teurlai. Presentato dalle Giornate degli autori, “Rocco” esordisce con la visione sotto la doccia, in primo piano, del notevole attrezzo attraverso il quale il giovanotto abruzzese è riuscito a oscurare il mito dei John Holmes. Del resto è lui a definire il proprio bigolo «un diavolo in mezzo alle gambe che non fa più parte di me», nei fatti destinato a vivere di vita propria, come un’estensione quasi metafisica, una Forza del Destino.
Non a caso “Libération” lo ribattezzò qualche anno fa “La bite humaine” (malizioso gioco di parole con “La bête humaine”), contribuendo a consolidare la porno-leggenda dell’italiano dotato che la mamma avrebbe voluto prete. È andata diversamente, come si vede, e Rocco accetta volentieri di farsi “monumentalizzare” da una telecamera che lo filma dovunque: a Budapest dove vive con la moglie paziente e i figli per nulla scioccati, mentre “provina” aspiranti attrici hard, mentre firma autografi nella sua Ortona, infine a San Francisco dove girerà il suo titanico/orgasmico canto del cigno insieme alla vulcanica collega britannica Kelly Tappert.
Di fronte a qualche scena si prova un po’ di imbarazzo, ma poi passa.
Michele Anselmi