L’angolo Michele Anselmi

Tutto sembrare ruotare attorno a una frase di Cesare Pavese presa da “Dialoghi con Leucò”. Dice: “L’uomo mortale non ha che questo di immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”. Risuona nel sottofinale di “Lei mi parla ancora”, il nuovo film di Pupi Avati da lunedì 8 febbraio su Sky. Il regista bolognese, classe 1938, s’è spesso interrogato sulla tenacia e il senso dell’amore coniugale nelle sue cine-storie, e qui, in una chiave di elegia senile, prende in prestito un libro di Giuseppe “Nino” Sgarbi, padre di Elisabetta e Vittorio, per parlare in fondo di sé stesso, delle memorie che non svaniscono, appunto dell’immortalità dei sentimenti.
Il novantenne Sgarbi pubblicò “Lei mi parla ancora. Memorie edite e inedite di un farmacista” nel 2016, dopo la morte dell’amatissima moglie Caterina, per tutti “Rina”. Il loro era stato un rapporto intenso, proficuo, complice, durato 65 anni. Nel film scompare l’illustre cognome ferrarese e Avati immagina, per infoltire la vicenda sul versante drammaturgico, che il vedovo inconsolabile sia raggiunto nella bella casa di campagna ricolma di rarità artistiche, incluso una tela del Guercino, da un cinico “ghost writer” romano con velleità da scrittore (tiene nel cassetto un romanzo rifiutato da tutti, “Di cosa parliamo quando parliamo di Carver”).
La potente editrice Elisabetta intende raccogliere in un volume le memorie del padre sulla moglie appena scomparsa, in modo che l’uomo non si lasci morire di inedia e malinconia. Ma Amicangelo, un cinquantenne separato dalla moglie, con figlia di sette anni e amante giovane/esigente, è insofferente, stanco di scrivere autobiografie di chef, calciatori, politici, senza poterle firmare…
“Lei mi parla ancora” gioca su vari piani temporali, tra presente e passato, spesso intrecciandoli in una chiave di quieta allucinazione, in modo che lo spettatore possa seguire gli eventi e insieme condividere lo struggimento di “Nino”, la crisi emotiva di Amicangelo, gli episodi cruciali di quell’amore eterno inchiodato a una promessa scritta in una lettera. “Portare avanti una relazione, e riuscirci, potrebbe avere un valore misterioso, sacrale” scandisce il vecchio farmacista all’ospite inatteso venuto da fuori, sulle prime maltrattato, poi affettuosamente accettato.
Saprete, perché se ne parla da mesi, che il vedovo è incarnato dall’ottantenne Renato Pozzetto, alle prese col primo ruolo drammatico della sua carriera, s’intende giocato tutto in sottrazione, diciamo fin troppa: tra frasi smozzicate, assenze senili, inquietudini notturne, movimenti lenti, sguardi catatonici. “Rina” è Stefania Sandrelli, mentre nei flashback tocca alla brava Isabella Ragonese interpretare quella donna colta e volitiva, bella e moderna, sentita quasi come irraggiungibile dal marito campagnolo col viso di Lino Musella. Se Fabrizio Gifuni fa l’aspirante romanziere con la vita incasinata, Chiara Caselli è Elisabetta, mentre Alessandro Haber appare nei panni di Bruno, l’amico col quale sfidarsi a colpi di poesie imparate a memoria, e Nicola Nocella in quelli del fedele factotum.
Affiorano nei ricordi il Bergman del “Settimo sigillo”, il Leopardi del “Tramonto della luna”, i Radio Boys di “Malagueña Salerosa”, ma il film purtroppo non arpiona, stenta a comporre un quadro emotivamente toccante, capace di saldare i diversi percorsi umani e illuminare, appunto, i misteri dell’amore immortale evocato dalla calda voce narrante di Dario Penne (Anthony Hopkins).
PS. Nel mulino di Stienta anni Cinquanta appaiono nasi rifatti e labbra a canotto. Va bene che il cinema è convenzione, però…

Michele Anselmi