L’angolo di Michele Anselmi 

Con tempismo perfetto, in coincidenza con il giorno in cui si celebra l’Unità Nazionale Russa e con la prima settimana di novembre del 1971 narrata dal film, esce oggi giovedì 4 in alcune sale italiane “Dovlatov. I libri invisibili”. L’ha scritto e diretto nel 2018 il regista russo Aleksej German Jr, di cui qualcuno ricorderà “Soldato di carta” premiato a Venezia 2008; e anche questo nuovo film s’è subito imposto all’attenzione internazionale vincendo un Orso d’argento a Berlino quattro anni fa per “il suo straordinario valore artistico”. Ci vuole una certa audacia nel proporlo al pubblico italiano con l’aria che tira e i gusti correnti, ma alla Satine Film di Claudia Bedogni piacciono le sfide culturali.
Il Dovlatov del titolo è Sergej Dovlatov, uno scrittore russo di origine ebrea vissuto tra il 1941 e il 1990, solo che gli ultimi tredici anni di vita li passò a New York dopo essere scappato da Leningrado, oggi San Pietroburgo, per sfuggire al soffocante controllo del regime sovietico. Quando lo incontriamo, appunto il 1° novembre del 1971, è un giornalista trentenne già inviso al potere locale di rigida osservanza brezneviana. Bello e divorziato, padre di una bambina al quale non riesce a regalare una bambola perché costa troppo, assai corteggiato dalle donne, l’uomo appartiene a un piccolo circolo di intellettuali russi relegati ai margini del sistema comunista, vessati e mai pubblicati, perché non iscritti all’Unione degli scrittori. Ascoltano jazz americano, suonano e cantano i blues, bevono e fumano fino a stordirsi, discutono di Steinbeck e Pollock: sostanzialmente sopravvivono, in una malinconica chiave bohémienne, incontrandosi nelle rispettive case in attesa di tempi migliori che non sono all’orizzonte.
Una luce lattiginosa, mentre già il freddo si fa acuto, grava su quella magnifica città sprofondata nella più tetra stagnazione, non solo economica (in molti sognano i jeans e i collant che qualcuno porta da fuori). Dovlatov sopravvive scrivendo articoli su commissione per un giornale operaio, ma anche lì le cose vanno male; gli chiedono di glorificare le gesta del popolo, ma lui recalcitra, ironizza su un film amatoriale che si sta girando, con tanto di sosia dei grandi scrittori russi: Tolstoj, Dostoevskij, Puškin, Gogol’ eccetera.
“La letteratura non può essere positiva o negativa: o esiste o non esiste” protesta l’uomo di fronte alle richieste tra ridicole e imperiose di una direttrice; e intanto, mentre uno dei suoi amici prova a suicidarsi e un altro finisce sotto un camion, l’esausto Dovlatov capisce che l’aria potrebbe farsi ancora più pesante per lui: l’arresto, la prigionia, forse la fucilazione. In sottofinale incontra per l’ultima volta Iosif Brodskij, già vittima di un indegno processo che nel 1964 l’aveva condannato come “parassita sociale”; di lì a poco, nel 1972, il carismatico amico poeta lascerà l’Urss per cercare un po’ di libertà in Occidente (ma a che prezzo psicologico), mentre Dovlatov resisterà fino al 1978.
Lungo due ore, fitto di dialoghi e situazioni quotidiane, costellato di riferimenti a letterati poco noti in Italia, infisso nell’ulcerata anima russa non solo di quella sventurata stagione politica, “Dovlatov. I libri invisibili” è certo un film per palati fini, al cui ritmo bisogna lentamente abituarsi, senza scalpitare. Ne esce il ritratto di una tumefatta avanguardia letteraria, una sorta di “Beat generation” russa, costretta a trastullarsi in riti stanchi per l’impossibilità di esprimersi, di scrivere, di pubblicare (i “samizdat” clandestini non sono una soluzione). Le ottuse e tracotanti facce di marmo dei burocrati, piccoli e grandi, dicono molto se non tutto.
Dovlatov è incarnato da Milan Maric, che a tratti sembra un giovane Volonté. Attraversa il film come un anti-eroe rassegnato al quale non resta che puntare ogni tanto i piedi, con sarcasmo e rabbia, per non disperdere ciò che resta della propria dignità. A volte, in effetti, non rimane che la fuga, sapendo che sarà doloroso abbandonare tutto, specie la propria lingua.

Michele Anselmi