La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor (3)

C’è un antico detto romano che recita: “Chi entra Papa ner conclave ne risorte cardinale”. Insomma, quasi sempre i candidati forti della vigilia alla fine faticano a farcela. Magari qui al Lido la profezia varrà anche per Alfonso Cuarón, gran favorito nella corsa al Leone d’oro col suo “Roma”; e tuttavia, che l’8 settembre sia premiato o meno dall’amico Guillermo Del Toro, il nuovo film del regista messicano è di quelli che lasciano il segno. Per intensità emotiva, rigore di stile, senso allegorico, precisione antropologica, riflessione intima. Prodotto da Netflix, presente in gran forze alla Mostra, “Roma” custodisce una storia autobiografica, il regista 57enne parla in buona misura di sé, nascondendosi dietro uno dei quattro bambini che all’inizio vediamo allegramente giocare in una casa della buona borghesia di Città del Messico, nel quartiere detto appunto “Roma”.
Siamo nel 1970, nei cinema passano “Tre uomini in fuga” e “Abbandonati nello spazio” (un omaggio a “Gravity”?), alla radio si ascoltano gare canore del tipo “Creedence contro Beatles”, nessuno immagina che di lì a poco, il 10 giugno dell’anno successivo, le squadracce paramilitari del governo spareranno sugli studenti in lotta, nel famigerato “massacro del Corpus Christi”.
Ma in realtà anche in quella bella casa piena di stanze qualcosa non va per il verso giusto. Il marito medico è quasi sempre fuori per qualche convegno internazionale, e presto scopriremo che ha un’amante; la moglie Sofia, esasperata e depressa, fa quel che può per non turbare la crescita dei quattro figli; e Cleo, una delle due domestiche di origine india, fattiva e amatissima dai ragazzi, si scopre incinta dopo essersi fatta abbindolare da un fanatico di arti marziali, pure fascistoide, che l’ha subito mollata.
Girato in spagnolo, dentro un bianco e nero non gratuito, senza uso di musica che non sia diegetica, cioè proveniente dall’interno di una scena, “Roma” si propone, parola di Cuarón, pure sceneggiatore e direttore della fotografia, “come un’esplorazione della gerarchia sociale in Messico, un Paese in cui classe ed etnia sono state sempre intrecciate in maniera perversa”.
Il film, nell’arco di 135 minuti per nulla faticosi, rievoca due anni di vita di quella strana famiglia matriarcale, lasciando affiorare strada facendo la profonda complicità che finirà col legare le due donne rimaste sole, così diverse per classe e provenienza e tuttavia decise a reagire al comportamento deprecabile dei rispettivi uomini.
Non saprei dire, a onor del vero, se suggestioni di Kantor e di Checov, come leggo, echeggino nella partitura scritta da Cuarón; ma sono invece certo che in “Roma” torni, sia pure nella differenza dei contesti, qualcosa del cinema di Scola, l’idea di cioè di evocare quel che accade là fuori, nella società, facendolo filtrare all’interno delle dinamiche familiari, in una sorta di osmosi continua. Avrete capito che un’aura di minaccia costante grava su quella casa, a partire dalla prima sequenza, costruita con una certa insistenza sull’acqua insaponata gettata su un pavimento esterno per ripulirlo dalle continue deiezioni canine; e tralascio, per non rovinare la sorpresa del pubblico, di suggerire tutto il tragico che verrà.
Yalizia Aparicio e Marina de Tavira incarnano le due donne, la “sguattera” e la borghese, e quasi non ti accorgi che stiano recitando per come risultano naturali. A pensarci bene, un altro merito del regista.
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Si parla a suo modo di “sguattere” anche in “The Favourite”, secondo film in concorso della giornata, una produzione americana che porta la firma del greco emergente Yorgos Lanthimos, quello del sopravvalutato “The Lobster”. Solo che siamo alla corte della regina inglese Anna Stuart (1665-1714), l’ultima della casata scozzese ad aver ricoperto quel ruolo. Il film, al lume di candela, tra zoom, grand’angoli e rintocchi percussivi, si propone come una torva commedia sulla seduzione, il potere e l’immoralità, diciamo una gara tra due donne ambiziose per diventare “la favorita”, appunto, di una regina considerata fragile, influenzabile, già avvelenata dalla gotta. La storia è vera, solo che Lanthimos accenna appena al contesto storico, non cita i due partiti rivali dei Whigs e dei Tories, e si guarda bene dal ricordare che la guerra contro i francesi in realtà rientra in un più allargato conflitto per la successione di Spagna, dal 1702 al 1713.
Senza eredi, di gusti lesbici e facile alla depressione, la regina Anna vede gonfiarsi davanti ai propri occhi, e in parte ne gode, il duello feroce tra la potente Sarah Churchill, da poco nominata Duchessa di Marlborough, e l’aristocratica decaduta Abigail Hill Masham, cugina di Sarah ingaggiata a palazzo come cameriera. Sarah, pure amante della regina mentre il marito guida le truppe al fronte, di fatto governa l’Inghilterra, approfittando della situazione confusa creatasi in Parlamento; mentre la scaltra Abigail intuisce che solo scalzando quella donna luciferina dedita a sparare e a vestirsi da uomo potrà entrare nelle grazie della sovrana.
Il film, diviso in otto capitoletti dai titoli maliziosi, pesca nel genere “intrighi a corte” per ricostruire, colpo su colpo, le mosse delle due avide donne sul corpo della regina. Una sorta di “Eva contro Eva” in chiave settecentesca, con una punta di Peter Greenaway’s style, tra parrucche giganti e giochi di lingua, tè avvelenati e battute esplicite, col sesso cinicamente concesso ad attraversare la commedia del potere finché tutto si tinge di nero.
Rachel Weisz è “la favorita” che difende con le unghie e coi denti il proprio status; Emma Stone è la giovane affamata capace delle peggio cose per sbarazzarsi della concorrente; ma forse la migliore in campo è Olivia Colman nei panni della gracile e umorale regina Anna. Se vi pare di averla vista in tv, non sbagliate: era la valorosa agente incinta dei servizi segreti britannici nella miniserie “The Night Manager”.
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La fregatura è arrivata piuttosto presto con il terzo titolo in concorso della giornata: “The Mountain”. Americano, indipendente, girato con formato quasi quadrato, quello di Rick Alverson è il classico film “da festival” che ogni festival dovrebbe evitare con cura. Nell’America montagnosa del 1954, un giovanotto introverso e complessato, legato al ricordo di una madre scomparsa nel nulla, incontra un lugubre lobotomista che opera a pagamento negli ospedali psichiatrici rendendo “innocui” i pazienti considerati molesti. “L’assistente” scatta foto per il medico, e presto si fingerà più squilibrato di quanto sia, specie dopo aver fatto l’amore con una fanciulla bellissima picchettata in testa.
Sullo sfondo ci sarebbe c’è la triste vicenda di Rosemary Kennedy, la sorella dimenticata del futuro presidente degli Stati Uniti; ma il film resta sul vago, preferendo mostrare, in un clima malato e soffuso, tra occasionali schizzi di sangue, ambienti clinici giallognoli e tirate in francese di un profeta schizzato, la progressiva “liberazione” dei due giovani amanti, s’intende lobotomizzati, ma forse non tanto. Tye Sheridan e Jeff Goldblum sono il giovanotto e il dottore: di sicuro convinti di aver fatto un audace film “arty”.

Michele Anselmi