In attesa di incontrare la scrittrice e saggista Marina Crescenti durante la prima edizione del festival “Giallo Berico”, pubblichiamo un suo scritto che ha come oggetto i meccanismi del giallo e la passione per la scrittura. “Il sangue fatto inchiostro” è il titolo della sezione – a partire dalle 18 di venerdì 18 febbraio – affidata alla scrittrice, che terrà una vera e propria lectio su come scrivere un giallo e presenterà il suo romanzo “Il branco uccide – Caccia al drago giallo” (Nero Press Edizioni).

“Giallo Berico” è la rassegna cinematografica dedicata al genere giallo/thriller, che si terrà a Ponte di Barbarano (VI) il 18 e 19 febbraio 2022, presso la Sala Maggiore delle Opere Parrocchiali. Oltre alla proiezione di titoli di genere, il festival vedrà la partecipazione di numerosi ospiti tra registi, sceneggiatori, autori, giornalisti che prenderanno parte, oltre che ai film in cartellone, anche alle numerose presentazioni editoriali che andranno a comporre il programma della rassegna.

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Pur potendo parlare di regole standard da rispettare e applicare nella stesura di un romanzo giallo – si vedano, ad esempio, le più famose “Dieci regole per scrivere il romanzo (giallo) perfetto” di Raymond Chandler – esistono principi generali soggettivi che ciascuno scrittore mette in campo durante la messa per iscritto di vicende criminose. Senz’altro, la prima regola da rispettare in una storia gialla è la chiarezza: mai trarre in inganno il lettore. Al contrario, rendergli la strada facile nel seguire lo snodo della narrazione, che gli deve apparire, paradossalmente, chiara nel suo mistero. Ciò gli consentirà di seguire il concatenarsi dei fatti senza avere incertezze, che invece deriverebbero da una trama eccessivamente complessa, non solo dal punto di vista specificamente tecnico. L’unico aspetto che dovrebbe restare all’oscuro fino alla fine è la figura dell’assassino. Ma non tutti gli autori seguono questa regola: si pensi, ad esempio, all’Ispettore Colombo, in cui si conosce sin dall’inizio la sua identità.
Parlerò di come piace a me scrivere un romanzo giallo, nel pieno rispetto di ogni altro modus operandi seguito da altri scrittori.
Una mia costante è che parto sempre da un argomento che mi affascina in modo particolare; può fare parte del mondo della musica, della nostra Storia, o prendere vita da un’idea che balena in testa e non mi abbandona più, o da un’esperienza personale; non so perché, quasi mai da un episodio di cronaca nera. Ho lavorato tanti anni in Università e la mia estrazione scientifica mi porta a studiare a fondo l’argomento che ho scelto, fino a quando non lo sento mio e ne ho la piena padronanza. Qualcuno direbbe: è insicurezza. No, è timore di dire cose sbagliate perché non le so; voglio che i miei romanzi – così come lo erano le mie pubblicazioni in riviste scientifiche – siano inattaccabili. Solo a questo punto, inizia per me la vera scrittura, nel rispetto di ingredienti sempre funzionali a rendere la trama coerente. Dalla coerenza prende forma la verosimiglianza, e da essa la credibilità, al fine di offrire un prodotto che sia chiaro e alla portata anche di chi non conosce la medicina legale, la balistica e ogni altra scienza forense per necessità richiamata nello scritto. Per fare un esempio, nel mio libro “Le Lacrime del Branco” e il suo sequel, i ragazzi fanno uso di droghe. Nulla ho scritto in merito, se non dopo avere consultato un poliziotto e un medico legale, grazie ai quali ho conosciuto a fondo le diverse tipologie di sostanze stupefacenti in circolazione e i loro effetti.
Ho iniziato a pubblicare nel 2006, ma scrittori si è nell’animo, non per il numero di pubblicazioni realizzate: già all’età di 7 anni avevo il callo della scrittura, la mia prima grande passione. Altre sono maturate solo successivamente e vengono fuori prepotentemente quando scrivo. Sono la musica e il cinema italiano dei gialli e dei polizieschi anni ’70 e ’80 e il tennis. Esse rappresentano la costante del climax nei miei libri. Non è un caso se tra le mie opere posso annoverare “Joy”, un giallo che ho scritto in omaggio a Ian Curtis, il cantante e paroliere del gruppo post-punk i Joy Division, la biografia di Luc Merenda (“Una vita a briglia sciolta”, Bloodbuster Edizioni), l’attore che impersonò diverse figure di commissario nei nostri poliziotteschi, e i 4 libri che hanno per protagonista il Commissario Narducci, nei quali abbonda il tennis. Nei miei romanzi, dunque, è molto presente il mio vissuto, che grazie alla scrittura ho scoperto essere assai passionale, e tanto ha a che fare con un’immaginazione di derivazione cinematografica, prima ancora che letteraria, essendo io cresciuta “a pane e polizieschi”. Immagini ed emozioni mi giungono da vecchie pellicole, metabolizzate fin da bambina e impresse indelebili nella mia mente di adulta. Quando scrivo una vicenda, in verità, più che scrivere, io descrivo, e mi piace chiamarla “scena”, poiché non faccio che riportare sul foglio ciò che vedono gli occhi della mia mente: sirene lampeggianti sopra verdi volanti, lucidi guanti di pelle nera, coltelli affilati, bisturi insanguinati… ma anche gli indumenti che indossano i miei personaggi, le personalità di ognuno, le loro movenze, il modo di parlare e così via, viene fuori da fotogrammi.
L’approccio che ho avuto con ogni mio libro è stato ogni volta diverso. Poteva accadere che non sapessi ancora chi fosse l’assassino quando ho iniziato a scrivere, o che lo avessi avuto subito in mente. In alcuni, ho deciso il titolo dopo averne terminato la stesura, mentre in altri il titolo è stato il colpo dello starter ai blocchi di partenza. Per ognuno di essi ci sono voluti tempi diversissimi: due li ho scritti in un mese e mezzo ciascuno, per altri ho impiegato anni, con lunghe pause. Per mia fortuna, non ho mai avuto il cosiddetto blocco dello scrittore, però gli accadimenti della vita mi condizionano molto nei ritmi di scrittura. Scrivo se sto bene, non ne ho proprio voglia se sto male. Dunque, non scrivo. Ma la cosa che i miei libri hanno in comune è che parto sempre da un’idea di base che chiamo “ossatura”, e che vado pian piano a riempire fino a comporre l’intero progetto. Come si fa con lo scheletro quando si aggiungono muscoli, tendini, arti e articolazioni, vene e arterie… e infine, la pelle: la copertina del libro.
Un altro mio vincolo che credo meriti di essere menzionato e che eseguo in modo severo è di centellinare con avarizia e oculatezza indizi e circostanze. Questo lavoro è reso ancor più difficile nel momento in cui la storia si è man mano delineata in modo chiaro nella mia mente: a quel punto, devo fare molta attenzione a non farmi sfuggire elementi chiave che porterebbero il lettore alla scoperta prematura dell’assassino. In questa sorta di gioco al massacro con me stessa, diventa fondamentale incastrare, come tanti pezzi di un puzzle, orari, date, frasi pronunciate en passant che hanno invece importanza capitale nella trama, cose che agli occhi di qualcuno non quadrano sin dall’inizio ma che devono rimanere tali fino alla fine, ossia, i mille fili – a volte, molto sottili – che ho lasciato rotolare giù, e che ora pendono insieme, uno accanto all’altro, in attesa di ricomporsi in un unicum indissolubile. Un vero e proprio bilancio in cui l’attivo e il passivo, che avanzano – verso il saldo finale – sfalzati in termini di importi (i personaggi) e di tempi (il progredire della narrazione), devono alla fine risultare in pareggio. I conti devono ridare. Tutti. Sempre.

Marina Crescenti