Nell’ambito del cinema italiano, Gabriele Muccino è una figura parecchio enigmatica. Bistrattato dalla critica, ma trionfatore al box office, soprattutto dopo la collaborazione con Will Smith che gli ha fruttato ampio successo anche all’estero. Il regista romano è una mina vagante, quell’elefante nel salotto che gli americani sanno essere presente, ma che tendono a dimenticare, nonostante l’enorme stazza renda tutto ciò quasi impossibile. Dopo aver diretto all’estero Quello che so sull’amore e Padri e figlie, Muccino è tornato in Italia, ripartendo da zero con L’estate addosso, road movie sul coming of age dei suoi personaggi. Una sorta di rinascita per un regista che l’industria culturale italiana, in fin dei conti, non è mai riuscita a sfruttare a pieno. In questo suo ritorno al cinema “economico”, Muccino ha sfruttato un altro personaggio fondamentale dello spettacolo italiano: Jovanotti, autore del brano musicale che ha dato il titolo al film e che, come il regista, è stato in grado di ottenere un buon successo negli Stati Uniti.

Protagonista del lungometraggio è Marco che, insieme a Maria (ma solo per caso), si ritrova a vivere la vacanza dei diciotto anni negli States, un po’ il sogno di ogni adolescente che si affaccia improvvisamente nel mondo degli adulti e che deve fronteggiare necessariamente una serie di scelte che condizioneranno per sempre gli anni a venire. A San Francisco, i due ragazzi saranno ospitati da Matt e Paul, coppia omosessuale che minerà profondamente le certezze di Maria e, a sua volta, scossa dalla convivenza mensile con i due adolescenti romani.

Quest’ultimo lavoro di Muccino funziona. Perché è bulimico come non mai, sfrenato, eterogeneo, multiculturale, un melting-pot di cinema e giovinezza che, attraverso la macchina da presa, tallona i suoi personaggi, li abbraccia, li accarezza, coccolando le loro debolezze. Si discetta di paure e di sogni, di speranze e di vecchi incubi, di fallimenti e di emozioni. Spesso, con il solito tono urlato che alla lunga irrita, ma che trasmette vitalità. Impossibile non provare nostalgia e persino una punta di malinconia per anni ed emozioni che più o meno tutti abbiamo vissuto. L’ultima estate di libertà e di spensieratezza. Peccato che il peso di Muccino si senta. E con esso il suo essere “borghese”. Peccato che la follia urlata di questi quattro ragazzi duri soltanto un mese e non raggiunga lo status di rivoluzione permanente. Peccato che le urla siano solo superficiali, perché il silenzio, in fin dei conti, è molto più forte e decisivo di grida liberatorie. Questo cinema è un cinema fuori del tempo, senza alcun legame con la realtà storica che stiamo vivendo, destinato a perire nel breve periodo di un’estate disimpegnata e sospesa.

Matteo Marescalco