L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor
L’estate sta finendo / e un anno se ne va
sto diventando grande / lo sai che non mi va.
“L’estate sta finendo” è un’azzeccata canzone dei Righeira, del 1985. Due anni dopo diede il titolo a una commediola corale di Bruno Cortini, scritta addirittura da Francesca Archibugi. Antonello Fassari era tra i protagonisti della non memorabile impresa, e il caso vuole che l’attore romano oggi si presti a una comparsata in amicizia, dai toni ben più ambigui o oscuri, nel film che Stefano Tummolini, classe 1969, ha voluto battezzare, di nuovo, “L’estate sta finendo”.
Il tormentone dei Righeira non c’entra più. Ma il regista, che alterna l’attività cinematografica a quella di traduttore dall’inglese per Fazi Editore, notevole il suo lavoro con John Williams, in particolare per “Stoner” e “Butcher’s Crossing”, deve aver pensato che quel titolo funzionasse a dovere per questa storia di ordinaria e giovanile incoscienza nata come un vago omaggio all’Hitchcock di “Nodo alla gola” per una serie tv che poi non si fece mai.
In realtà, viene da pensare anche a “La congiura degli innocenti”, con quel cadavere ingombrante di cui nessuno sa bene cosa fare, tanto che, vista la qualità morale dei protagonisti e la loro incapacità di assumersi qualsiasi responsabilità, si potrebbe dire: “La congiura degli incoscienti”. Perché tali sono gli otto ventenni, di varia estrazione, perlopiù borghesi benestanti e fresconi, che si ritrovano in una lussuosa villa al Circeo, immersa nel verde e con affaccio sul mare.
Nessun riferimento alla cronaca nera. Anzi Tummolini, di cui molti apprezzarono l’esordio con “Un altro pianeta”, ripropone con “L’estate sta finendo”, prodotto da Film Kairós e Fazi Editore, presentato a Pesaro 2013 e ora in sala targato Cinecittà Luce, l’ambientazione marina, ma allontanando ogni possibile suggestione rispetto ai tragici fatti del 1975. Però scrive sulle note di regia, in chiave di messaggio universale: «L’emulazione dei modelli televisivi e l’esigenza di primeggiare rispondono a un desiderio profondo che quasi tutti i giovani hanno sperimentato: quello di essere socialmente riconosciuti e accettati. Fin dove può spingere questo desiderio? Che cosa è necessario sacrificare in suo nome?».
Ecco allora la cronaca di un piccolo gioco al massacro che si conclude in modo tragico, con un corpo di cui tutti vogliono disfarsi, non perché “colpevoli” di quella morte, solo per non incorrere in fastidi e incombenze varie.
Tutto si svolge in quella villa sontuosa a Punta Rossa, che ricorda un po’ – c’è anche una citazione cinefila in proposito – quella di “Intrigo internazionale”. Lì il tenero e fragile Domenico, amico per la pelle del più cinico Fabrizio, porta alcuni amici, senza dirlo alla madre, per timore di rimproveri. Ci sono: le sorelle Giulia e Flavia, belle entrambe, la prima superficiale e vanesia, la seconda più dolce e osservatrice; la “coattella” Katia che scopicchia con Fabrizio e vorrebbe inserirsi nel gruppo; un musicista alternativo, molto di sinistra, Davide, con cappuccio della felpa perennemente in testa e canzoni impegnate; un isterico ballerino omosessuale, Manuel, uscito vincitore da un talent-show ma in cerca di ingaggi televisivi; e infine Guido, un giovanotto goffo e impacciato, appena sbarcato da Palermo con un regalo per il cugino Domenico (insieme, da bambini, passarono molte estati in quella dimora).
Guido è l’elemento debole della compagnia: trasandato, maldestro, fa il bagno in mutande e imbarazza tutti con certe sue considerazioni, peraltro mai sciocche. Un piccolo incidente al mare gli fa venire la febbre, sembra un nonnulla, invece, forse anche per colpa di una “pippata” di cocaina, tutto precipita. Che fare, a quel punto?
Siamo, volendo, tra “Piccoli omicidi tra amici” di Danny Boyle e “About Elly” di Asghar Farhadi, anche se, purtroppo, il film di Tummolini, scritto insieme a Michele Alberico e allo scomparso Mattia Betti, non ha la grinta macabro-surreale del primo e la profondità esistenziale del secondo. Le chiacchiere a ruota libera non si ispessiscono in ritratto generazionale, i giovanotti sembrano solo dei fessi intenti a spassarsela a ogni costo mentre l’estate declina, il tempo volge al brutto e i pochi adulti che sfiorano in quel maledetto week-end, come il giardiniere minaccioso Antonello Fassari, il produttore televisivo adultero Antonio Merone, l’amante lesbica irrisolta Lucia Mascino, non sono troppo più rassicuranti di loro.
Magari il problema non è solo di sceneggiatura, certo periclitante, pure appesantita da un episodio macchiettistico con due ridicoli poliziotti che sembra appartenere a un altro film. Sarà perché gli interpreti, pur volonterosi e fisicamente azzeccati, non paiono sempre ben assortiti, quasi uscissero da una commedia dei Vanzina voltata in tragedia. Sono, nell’ordine, Andrea Miglio Risi, Marco Rossetti, Nathalie Rapti Gomez, Nina Torresi, Ilaria Giachi, Fabio Ghidoni, Stefano Fardelli e Giuseppe Tantillo. Insomma, si sente un po’ che recitano a non recitare, come inseguendo una naturalezza generazionale che però non corrisponde alla tessitura drammaturgica: che resta un po’ grezza, a parte il finale aperto, piuttosto bello e potente.
Alla fine risulta più interessante, profondo, il seguito – non diremo “sequel” – che Tummolini ha scritto per Fazi Editore sotto forma di romanzo, quasi un finto reportage a più voci, un po’ alla maniera dell’ottocentesco Wilkie Collins di “La donna in bianco”. Si chiama “Un’estate fa”, come un’altra famosa canzone, esce contemporaneamente al film, e qui il regista, con piglio originale, quasi un mix di cronaca giudiziaria e allegoria morale, ricostruisce il dopo, mettendo in luce contraddizioni e menzogne, ricordandoci quanto segue: «Il male non è mai estremo e non ha connotazioni demoniache. Anzi, è banale e superficiale. A causa della leggerezza degli uomini, fiorisce sulla superficie del mondo e si espande. Come un fungo, di quelli che si prendono al mare». Non è sempre così, ma ci si può stare, almeno per il misfatto in questione.
Michele Anselmi