In seguito alle polemiche suscitate in internet da L`eterna maledizione del plagio, articolo di Roberto Faenza comparso su “Il fatto quotidiano” di domenica 13 giugno, Cinemonitor pubblica per intero l`“incriminato” pezzo del suo direttore. Invitiamo allora a rileggere o a leggere per la prima volta il testo, in modo da comprendere quanto l`analisi proposta, lungi dal santificare o demonizzare Luttazzi o chi per lui, fosse semplicemente volta a fornire spunti di riflessione, soprattutto storici, su quella sottile linea che distingue il plagio dall`omaggio, la citazione dalla copia.

Copia conforme |
Un articolo già apparso su "Il Fatto Quotidiano" del 13 giugno…

Il caso Luttazzi, se di caso si può parlare, è molto più interessante e profondo di quanto non appaia a prima vista. Nella bella intervista comparsa su Il Fatto di ieri a firma di Ferruccio Sansa, il nostro comico scompagina le carte, compiendo un slalom raffinato tra citazioni colte e lezioni di semiotica, rivolte soprattutto ai fans, che come tutti i fans agitano spesso una miscela micidiale a base di amore misto a odio. Cocktail che nell’era di internet diventa ancora più esplosivo e letale, perché riesce a deflagrare in tempi record, correre di sito in sito e diventare scoop. Hanno ragione certi studiosi a ritenere internet il luogo più pericoloso che esista al mondo. Più pericoloso dei quartieri violenti del Bronx o della odierna abbandonata Detroit. Lì ti accoltellano e se proprio ti va male ci lasci la pelle. Amen. Qui, in internet, se vieni beccato o diffamato te lo porti dietro tutta la vita, perché quando una notizia è in rete non la toglie più nessuno, neppure i cosiddetti spazzini del web. Ecco perché da quando esiste il web nessuno è sicuro. Luttazzi risponde ai suoi accusatori che non c’è plagio nelle sue battute perché se è vero che copia lui lo dichiara. Non solo, ma invita  tutti a scoprire dove e da chi ha copiato, per cui la sua alla fine è una sorta di pedagogia di massa, volta scoprire il bello della comicità ampliandone l’orizzonte e inducendo a conoscere altri personaggi, per lo più stranieri, che altrimenti in Italia nessuno saprebbe chi sono. Ma i blogger non lo ascoltano e si divertono a colpirlo, mettendo in rete una serie di sketch accoppiati agli “originali”, assolutamente identici. Vedi i video scaricati dai repertori di George Carlin, di cui Luttazzi ha “copiato” pari pari. Copio anch’io quanto di Carlin scrive Wikipedia: “Il suo sketch Seven dirty words (Sette parole sconce) degli anni settanta fu oggetto di una sentenza della Corte Suprema, ad esito della quale il governo fu autorizzato a regolamentare il contenuto delle trasmissioni pubbliche per evitare l`uso di un linguaggio troppo volgare alla radio e alla televisione. Esistono quindi sette parole che non possono essere pronunciate in onda, sotto pena di sanzioni piuttosto pesanti”. Questa citazione andrebbe trasmessa per conoscenza agli estensori dell’imminente legge bavaglio per rendersi conto che non sono soli. Sarebbe divertente fare un concorso pubblico per stabilire quali potrebbero essere le nostre 7 parole proibite, idea che lancio in redazione. Sarebbe altresì interessante scatenare i blogger alla ricerca del colpevole nelle aule dell’università, dove la maggioranza delle tesi di laurea sono frutto di un frenetico copia e incolla da internet, praticato dalla stragrande maggioranza degli studenti. I più bravi rielaborano e aggiungono di proprio. Gli asini, che spesso non lo sono più dei professori che non se ne accorgono, lasciano incollati persino i margini. Dicevamo dei detrattori. Interessa veramente al pubblico, quando ride alle freddure del nostro comico, se l’autore originale di quella battuta è un altro? L’interpretazione, la mimica, la recitazione non sono forse un qualcosa di unico, il marchio di fabbrica che rende originale ciò che all’apparenza potrebbe sembrare copia? Chiedo a Roberto Benigni cosa pensa di questa faccenda. Risposta illuminante: anche Dante copiava. Copiava lo stesso Virgilio, per non dire Ovidio. Ma non era un copiare, sottolinea Benigni, era una sfida, spesso tesa a raffinare il pensiero originale. Prendiamo Woody Allen. Se i blogger che inseguono Luttazzi si mettessero all’opera sul repertorio di battute e barzellette sciorinate da Allen in ogni film (e avessero competenza di tradizione ebraica), scoprirebbero che il 90% di quelle battute arriva da una fonte precisa: la comicità di origine yiddish. Se poi i nostri segugi andassero alla caccia delle origini dei personaggi di Chaplin, primo tra tutti il vagabondo, scoprirebbero che un personaggio simile era già presente negli spettacoli della compagnia messa in piedi da Fred Karno, impresario geniale e scopritore di talenti comici eccezionali. Vogliamo parlare di Buster Keaton?  Le sue gag, le sue invenzioni, le sue piroette acrobatiche e linguistiche hanno un’origine chiarissima, il vaudeville, di cui sua madre e suo padre si nutrivano e che avevano insegnato al figlio. Persino il nome Buster era copiato da un’idea altrui, quel mago Houdini, che frequentava i genitori di Keaton e che visto il ragazzino rovinare da uno scalone e rialzarsi senza farsi neppure un graffio esclamò “what a nice buster”! Tralasciando Shakespeare, gran maestro nell’arte di copiare. Ne sanno qualcosa quel Masuccio Salernitano che un centinaio di anni prima e quel Luigi da Porto che qualche decennio prima di Shakespeare avevano raccontato la stessa vicenda di Romeo e Giulietta. E per restare in casa nostra, che dire del grande Eduardo? Sarebbe esistito Eduardo autore e attore senza mutuare in tutto e per tutto le battute, le trame, i personaggi e le commedie  dall’arte del suo stesso padre naturale Eduardo Scarpetta? Visconti quando firmò La terra trema non volle neppure ricordare il debito con Verga. Qualcosa di simile accade anche a me  quando realizzo un film ispirato a un romanzo perché mi chiedo sempre: che c’entrano le immagini con i fogli scritti? E cosa fanno i milioni di frequentatori di Youtube, se non copiare tutto, dalle sequenze dei film e delle fiction, dagli spot, dagli home movies? Copiano a man bassa, ma al tempo stesso a loro modo creano, perchè “modificano” la fonte, magari cambiandone il montaggio o aggiungendo una musica o anche solo qualche battuta. Viviamo insomma nell’era del plagio di massa, che però non è più plagio, ma qualcosa prima sconosciuto. E’ la stessa filosofia dei pirati del web a spopolare in rete: nulla è tuo, né un libro, né un film, né una canzone. Tutto è di chi lo trova e se lo prende, facendolo suo. Con buona pace del diritto d’autore.