L’angolo di Michele Anselmi
Proprio venerdì scorso i valdesi hanno festeggiato una data assai importante, non solo per loro: il 17 febbraio del 1848 re Carlo Alberto di Savoia concesse i diritti civili alla minoranza protestante, ponendo fine a secoli di ignominiosa discriminazione. Ma certamente l’editto non bastò, anche dopo la nascita del Regno d’Italia, a rendere meno retriva, conservatrice e “maschilista” la monarchia sabauda.
Vedere per credere “La legge di Lidia Poët”, miniserie in sei puntate che si può gustare, se interessa, dal 15 febbraio scorso (vedi le coincidenze?) su Netflix. Prodotta da Grøenlandia, ideata da Guido Iuculano e Davide Orsini, per la regia di Matteo Rovere e Letizia Lamartire, la serie s’ispira, con comprensibile libertà non essendo una fedele cine-biografia, alla figura storica di Lidia Poët, 1855-1949, che fu la prima avvocata italiana, anche se il suo fu un percorso professionale accidentato, punteggiato di veti e ingiustizie, figlio di inveterati pregiudizi contro l’emancipazione femminile.
Lidia veniva da un’agiata famiglia valdese della Val Germanesca, in Piemonte, anche se gli sceneggiatori sembrano non saperlo e si guardano bene dal dirlo; di sicuro respirò da ragazza una certa aria progressista e ribelle, sia pure nella cornice del secondo Ottocento: al punto di sfidare, non per scelta, la Procura generale del Re. La sua colpa? Essersi laureata in Legge nel 1881, con una dissertazione sulla condizione della donna nella società, in particolare sui temi legati al diritto di voto alle donne, con l’intenzione di fare il procuratore legale e quindi iscriversi all’Albo torinese degli avvocati.
La prima puntata della serie porta in esergo una data: 3 novembre 1883. Dall’agosto precedente, dopo un tormentato iter, la brillante ventottenne può praticare il mestiere di avvocato, ma otto giorni dopo, l’11 novembre, la Corte d’appello, accogliendo l’ottusa decisione del Procuratore generale, annullerà l’iscrizione all’Albo. Nella finzione s’immagina che Lidia Poët, avendo nel frattempo assunto la difesa di un povero cristo accusato di un feroce omicidio, sia costretta a reinventarsi come “assistente” del fratello Enrico, un pavido leguleio, in modo da poter esercitare sottobanco quel mestiere, per non dare nell’occhio.
Siamo un po’ dalle parti di “Enola Holmes”, riuscita serie inglese di film: ambientazione ottocentesca riveduta e corretta, fremiti di libertà e convenzioni borghesi, lotta di classe e privilegi maschili, sesso e ipocrisia. E naturalmente Lidia ne esce come una femminista ante-litteram, una giovane donna disinibita e tosta, che fuma la pipa e va in bicicletta, capace di farsi furba all’occorrenza, ma inflessibile sul piano dei valori.
“Sono talmente ostinata, a volte, da diventare ottusa” dice tra sé e sé, ma le sue intuizioni sono sempre giuste; e poi difficile non simpatizzare per una persona alla quale viene detto, da una parente: “Se Dio ti voleva avvocato non ti faceva donna”.
Matilda De Angelis, bella e temperamentosa, spesso vestita di viola, solo un po’ troppo truccata in viso forse per questioni di pelle, ha la stessa età di Lidia Poët rispetto allo scorrere degli eventi, cioè i casi che risolve al posto del fratello ma restando sullo sfondo per non incorrere in nuove sanzioni. Per dire: una ballerina classica uccisa e chiusa in un baule, la moglie di un’industriale della cioccolata accoltellata a morte, un riccone apparentemente ucciso a rasoiate dal figlio oppiomane, prostitute oggetto di sperimenti “scientifici”… Ogni volta Lidia scansa la versione più prevedibile per poi approdare, da arguta detective, a una verità che contiene ingredienti a loro modo “politici”: l’avidità, l’omosessualità, la differenza di classe e censo, l’impunità baronale eccetera. Il meccanismo poliziesco a volte è esile, conta più il contesto, diciamo “storico”.
Una po’ alla maniera di Susanna Nicchiarelli, ma senza stridori, Rovere e Lamartire immergono la serialità in costume dentro una dimensione quasi rock, tra canzoni in francese e inglese, melodie schitarranti, turpiloquio contemporaneo e scene di sesso/nudo che mai passerebbero su una tv generalista. Poi, s’intende, c’è anche l’amore, benché Lidia voglia apparire impermeabile a legami fissi o peggio al matrimonio. Ma è chiaro che prima o poi dovrà scegliere tra l’amante giramondo Andrea e il giornalista anarchicheggiante Jacopo, incarnati da Eduardo Scarpetta e Dario Aito; il tutto sotto lo sguardo sempre meno occhiuto e perbenista del fratello, cioè Per Luigi Pasino.
Per la cronaca: solo nel 1920, all’età di sessantacinque anni, Lidia riuscì a ottenere l’iscrizione all’Albo, grazie a una legge del 1919 che aveva aperto alle donne tutte le carriere professionali, magistratura esclusa.
Michele Anselmi