L’illusionniste | Omaggio a Jacques Tati
Un cartone animato per adulti. E non è una contraddizione in termini. L’illusionniste di Sylvain Chomet si snoda tutto sul doppio binario che alterna e fonde norma e trasgressione, nuovo e “antico”, in un risultato che è pura poesia visiva e di contenuto. Il regista francese, candidato agli Oscar 2003 con Appuntamento a Belleville nella tripletta del miglior film d’animazione, fa suo un soggetto inedito di Jacques Tati. E’ la storia di un mago che a causa dell’avvento di ridicole ed effemminate star del rock’n’roll vede declassata la sua arte in fiere di paese, locande, vetrine. Questa estinzione è resa più dolce dall’incontro con Alice, una ragazzina che, dopo averlo visto esibirsi in una balera sulla costa scozzese, rimane affascinata dai suoi giochi di prestigio e decide di seguirlo ad Edimburgo. Tra i due nasce quell’affetto che lega un nonno alla sua nipotina.
Portamento distinto da maggiordomo, un immancabile ombrello sotto braccio e un fedele coniglio panciuto e mannaro nel cilindro. Alto e magro, due gambe lunghe lunghe, come un’ombra in giacca e cravatta. Così, attraverso la genuinità di carta e matita, rivive Jacques Tati. L’omaggio è sincero, rispettoso, poetico. Disegni con la non-finitezza del bozzetto, come quelli di un fumetto dai colori stinti al sole, col fascino retrò di una foto ingiallita. Elementi “antichi” del 2D che si aprono al digitale che, come è ben visibile dal movimento delle automobili o delle navi, rende tutto più fluido. Scelte in controtendenza rispetto all’imperante 3D applicato agli ultimi film d’animazione.
A Chomet non mancano personalità e originalità alla regia. Con chiara eco delle soluzioni tecniche di Tati, fa ampio uso della macchina fissa, rinunciando quasi totalmente a primi piani e dettagli. Lunghi piani sequenza plasmano un montaggio pacato, dove i tagli sono ridotti al minimo, creando un ritmo inusuale per i cartoons del Terzo Millennio, un ritmo che ci riporta ai primissimi lungometraggi d’animazione della Disney degli anni Quaranta.
Questa “vocazione al risparmio” si concretizza anche nei pochi dialoghi a cui assitiamo, rimpiazzati dalla comicità silenziosa di rumori, versi, mugugni che strappano sorrisi e risate. E’ come un film di mimi, capaci di suscitare emozioni senza aprire bocca.
Azzeccata la colonna sonora che mischia cullanti melodie al flauto e al pianoforte a folkloristici sprazzi di cornamuse scozzesi a repentini e brevi inserimenti rock.
Chomet investe anche sui paesaggi, creando una sorta di geografia sentimentale dove nebbia, vento, pioggia e sole corrispondono agli stati d’animo del prestigiatore e della piccola Alice.
L’illusionniste è quindi un film coraggioso, intenso, necessario nel suo essere pecora nera nel mare magnum dei film d’animazione. Un’opera carica di nostalgia, che fa riflettere sul nostro tempo e su cosa sarà il futuro senza un pizzico di tradizione. Un’opera così robusta da potersi permettere un finale triste, disincantato e amaro, che nega il più classico degli happy ending da cartone animato. Si spengono le luci della città come quelle della ribalta. La realtà ha vinto sull’illusione. Un biglietto intestato ad Alice recita: “I maghi non esistono”. Più.
Tommaso Tronconi