La Mostra di Michele Anselmi / 7

Certi film, se pescano troppo nel vissuto personale del regista, forse sarebbe meglio non farli. Tuttavia Emanuele Crialese, classe 1965, scrive nel presentare “L’immensità”, in concorso a Venezia: “È sempre stato ‘il mio prossimo film’, ma ogni volta lasciava il posto a un’altra storia, come se non mi sentissi mai abbastanza pronto, maturo, sicuro. Essendo un film sulla memoria, aveva bisogno di una distanza maggiore, di una consapevolezza diversa”.

Distanza e consapevolezza che poco vedo in questa storia dalle dichiarate rifrangenze autobiografiche: è lui a dire nelle interviste di essere nato femmina, col nome di Emanuela. Il titolo viene da una celebre canzone di Don Backy del 1967 che torna solo sui titoli di coda, non cantata da lui. Già Nino Manfredi la canticchiava con cadenza burino/marchigiana in “Straziami ma di baci saziami” di Dino Risi, solo che lì c’era da divertirsi, qui no.

Crialese, undici anni dopo “Terraferma”, firma un film che forse fa un po’ il verso a certe atmosfere di Pedro Almodóvar, con una punta di Todd Haynes, tra interni colorati e musiche da hit-parade, immergendo il tutto nella Roma altoborghese di metà anni Settanta. Qui, in un palazzo dal quale si vede il Cupolone, vivono i benestanti Clara e Felice con i loro tre figli, la più grande dei quali, la dodicenne Adriana, rifiuta di sentirsi femmina. Infatti porta un taglio di capelli da ragazzo, indossa un “chiodo” di pelle rossa, nasconde il seno nascente, insomma vive con sofferenza nome e identità sessuale. Ma tutta la famiglia è “disfunzionale”: il padre siciliano è un puttaniere che ha appena messo incinta la segretaria, la madre spagnola, bella e ribelle, è sempre a un passo dalla crisi di nervi, quanto ai due fratellini di Adriana uno fa la cacca dietro una porta, l’altra gioca col cibo senza mangiare.

S’intende che tra Adriana e sua madre si sviluppa un legame forte, di mutua complicità, ma il contesto è perbenista, ipocrita, falso, sicché alla ragazzina non resta che trovare scampo attraversando il metaforico canneto al di là del quale vive una coetanea zingara, una sorta di “amica geniale”.

Il film, un po’ mélo fosco e un po’ romanzo di formazione, gioca molto con l’aria del tempo, specie con le canzoni che arrivano dalla tv: ecco Celentano e Raffa che si dimenano al suono di “Prisencolinensinainciusol”, ecco Johnny Dorelli e Patty Pravo che duettano languidi sulle note di “Love Story”; e ogni volta Adriana – segue fantasia in bianco e nero, con playback – immagina di essere il cantante della situazione mentre la mamma Clara diventa la partner bionda.

A me pare tutto abbastanza esornativo, a partire da quel balletto in cucina che arriva, immancabile, pochi minuti dopo l’inizio, con mamma e figli che cantano “Rumore” sempre della Carrà. Ho la sensazione insomma che, a forza di rinviare il film sulla propria adolescenza, Crialese non sia riuscito a combinare gli elementi – umani, sociali, psicologici – del puzzle esistenziale, procedendo per trovate e trovatine: alcune fortemente drammatiche, altre legate allo spirito del tempo con accurata ricostruzione d’ambiente (si sente pure la pubblicità dell’Amaro Cora). Ma sono sicuro che il film molto piacerà al pubblico femminile.

In questo contesto, ambizioso sul piano delle intenzioni pop ma un po’ fragile su quello drammaturgico, neanche Penélope Cruz, brava a recitare in italiano, può più di tanto nel ritrarre la sua Clara: moglie fragile e tradita che piange vedendo “Il dottor Zivago”, è estranea a quel mondo bigotto, da scuola religiosa, nel quale si sente come imprigionata. Vincenzo Amato fa il maschio insensibile e manesco che non sa essere padre, mentre l’esordiente Luana Giuliani incarna l’adolescente Adriana, chiusa in un corpo che non sente suo, indocile e sensibile, col sogno d’essere Johnny Dorelli sul palco di Sanremo.

Il film, prodotto da Wild Side, uscirà il 15 settembre targato Warner Bros.

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Se l’applausometro conta qualcosa, “The Whale di Darren Aronofsky è il film finora più apprezzato dai festivalieri, per alcuni dei quali sarebbe già un indiscutibile Leone d’oro. Vedremo. Del resto, Aronofsky è un habitué qui al Lido, prima con Müller e ora con Barbera; nel 2008 il suo “The Wrestler” vinse pure il massimo premio. Stavolta il regista newyorkese s’è rivolto a una pièce teatrale di Samuel D. Hunter, trovando in Brendan Fraser, attore assai gettonato ai tempi di “La mummia”, anche per la sua bellezza, un protagonista perfetto.
Negli anni Fraser è parecchio ingrassato, ma certo non come il Charlie (il trucco “prostetico” è davvero impressionante) di questa vicenda cupa e struggente, desolata e romantica. Murato vivo da anni nella sua casa, ormai incapace o quasi di muoversi a causa dei 270 chili, l’obeso è un professore di letteratura che tiene corsi on line, oscurando, per vergogna, la propria immagine. Sente su di sé l’alito della morte, anzi quasi la cerca, trangugiando junk-food in quantità industriale. Non vuole farsi ricoverare nonostante i consigli dell’amica e medica Liz, dice di non avere soldi, ma chissà se è proprio così.
“Guardami, chi vorrebbe che facessi parte della sua vita?” sospira alla figlia Ellie che non vede da otto anni, oggi è sedicenne. Astiosa, sveglia e insultante, lei non gli ha mai perdonato di aver mollato la famiglia per vivere con un giovane allievo, poi lasciatosi morire. Nella prima scena vediamo Charlie masturbarsi di fronte a un film porno-gay, ma il prof. ha un animo gentile e soave, una parola carezzevole per tutti, vorrebbe solo andarsene avendo fatto pace con la figlia, della quale legge e rilegge una tesina su “Moby Dick” scritta a dodici anni. Avrete quindi capito che “The Whale”, la balena, è un titolo che si riferisce sia alla condizione umana/fisica dell’obeso, sia al gran romanzo di Melville: via via il concetto si preciserà.
Girato con formato quasi quadrato in un unico spazio, cioè l’appartamento malridotto, a suggerire l’esistenza autoreclusa del personaggio, il film è tagliato addosso a cinque personaggi, rispettando la natura originaria del testo: Charlie, la figlia Ellie e l’amica Liz, più un giovane e molesto predicatore della setta “New Life” e la moglie arrabbiata.
Il respiro sibilante, la pressione alle stelle, il cuore che cede, le piaghe da decubito e la pancia fino ai piedi, pizze, merendine e schifezze varie mandate giù senza masticare: ci sono scene difficili da sostenere, ma hanno un senso, perché l’obesità è una malattia atroce, non una “devianza”, che provoca anche una sorta di auto-emarginazione, per il timore di essere giudicati. Ma Charlie sembra aver superato anche quella fase: il suo sogno è farsi finalmente leggero e spiccare il volo.
In “The Whale” forte suona la polemica acre contro certe sette religiose americane, ma sfrigolano anche i temi della redenzione, del perdono, del rancore familiare, della sincerità totale e scorticata. Fraser, classe 1968, seppure immerso in quel trucco vistoso, quasi repellente, fa di Charlie un’anima pura, a suo modo leggera, in cerca di una redenzione stampata sui suoi occhi buoni. Offrendo ad Aronofsky, bravo nel pilotare anche gli altri quattro interpreti, l’occasione per firmare uno dei suoi film migliori.
“The Whale uscirà con I Wonder Pictures l’anno prossimo, immagino nella speranza di qualche Oscar: si sa, prove estreme come quella di Brendan Fraser molto piacciono ai giurati dell’Academy.
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Una prova splendida è pure quella offerta da Virginie Efira nel terzo film in concorso della giornata: il francese “Les enfants des autres” di Rebecca Zlotovski. Efira, l’anno scorso in giuria qui alla Mostra, è un’attrice bella, cangiante e molto espressiva, capace di misurarsi con le storie più diverse, anche in commedia. Qui è Rachel, una quarantenne single, molto corteggiata, che insegna in un liceo parigino, dove mostra agli studenti riottosi e annoiati “Le relazioni pericolose” di Roger Vadim. A un corso di chitarra incontra Alì, un padre separato con figlia piccola, Leila, a carico. Tra i due è subito sesso, poi amore e una specie di convivenza, con Rachel che si prende cura, come fosse sua figlia, della bambina. Ma amare i figli degli altri è un grosso rischio.
Se la partenza è un po’ loffia, troppo patinata e ricolma di musica inutile, il film via via prende quota, bene raccontando euforie e depressioni di Rachel, la quale peraltro ha saputo dal vecchio ginecologo, incarnato dal documentarista Frederick Wiseman in partecipazione amichevole, che i suoi follicoli sono pochi, debolucci.
La mano femminile della regista, alle prese con una vicenda autobiografica, si sente, specie nel ritratto di Rachel, così attraente e sensibile, infine rassegnata alla delusione amoroso. Anche se… Lui è incarnato da Roschdy Zem, mentre Chiara Mastroianni fa la tormentata madre di Leila. Sui titoli di coda risuona “Les eaux de mars” di Moustaki, poi rifatta in Italia da Mina. Il film uscirà in Italia con Europictures.
Michele Anselmi