Dopo il pregevole War Horse, il due volte premio Oscar Steven Spielberg torna nelle sale con una pellicola che è subito divenuta un caso: Lincoln, il film perfetto per essere amato dalla giuria conservatrice degli Academy Awards, per cui sembra già essere il favorito. Certamente dirigere un biopic introspettivo e colossale come questo non deve essere stata impresa facile e il risultato finale è sicuramente interessante, anche se forse non tanto da giustificare una simile pioggia di nomination, soprattutto considerando gli altri titoli, sicuramente molto forti. Ma il successo di Lincoln non è solo dovuto alla bravura dell’interprete principale, Daniel Day-Lewis, o alla materia, già cara al popolo statunitense di per sé: il merito è anche e soprattutto della competenza di Spielberg nel trattare la storia.
Già in passato il regista si era cimentato in veri e propri kolossal dal sapore storico, come Il colore viola, suggestivo nelle ambientazioni e nello svolgimento, versione forse fin troppo edulcorato e buonista del romanzo omonimo di Alice Walker, ma comunque rappresentativa di una società fortemente discriminante; il successivo L’impero del sole è la prova di come Spielberg sia sempre in grado di mescolare fatti storici e buoni sentimenti. Si passa poi a film crudi come Amistad e Salvate il soldato Ryan, decisamente più focalizzati sulla componente storica e visivamente molto più efficaci e a tratti disturbanti, coadiuvati da interpretazioni memorabili come quelle di Morgan Freeman, Anthony Hopkins e Tom Hanks; ma a voler fare un paragone di stile e intenti, l’ultima fatica del regista può essere (e sembra scontato, ma anche inevitabile) accostata al potente e pregevolissimo Schindler’s List: in entrambi i casi abbiamo due periodi storici che non possono non toccare le corde emozionali del pubblico, due figure carismatiche, in modo diverso, interpretate da due grandi attori e, infine, comprimari estremamente efficaci. Questi ed altri elementi fanno di entrambi i titoli due veri e propri kolossal storici, ma soprattutto, due pellicole estremamente introspettive, che si occupano di scavare a fondo nella psicologia di due grandi personaggi del passato, dediti a liberare gli Uomini dalla schiavitù e dagli orrori della discriminazione razziale.
Spielberg è molto attento alla gestione dei tempi e degli spazi, nonché alla cura delle interpretazioni, che giocano un ruolo fondamentale in questa tipologia di film; ma se in Schindler’s List la regia era priva di esagerazioni stilistiche e resa ancora più elegante dalla scelta del bianco/nero, nell’ultimo caso invece troviamo un tono troppo magniloquente, atto a celebrare le azioni di un uomo presentato come un eroe titanico, mentre la fotografia è ingentilita da colori che un tempo dovevano essere stati caldi e ora sono sbiaditi. Comunque la si guardi, che piaccia o no, Spielberg si conferma un regista senza limiti, uno dei pochi che sa rinnovarsi dopo decenni di attività.
Victor Laszlo