L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor
Se il titolo non vi suona poi così inedito è perché esiste un famoso romanzo di Henry James, appunto “Quel che sapeva Maisie”, pubblicato nel 1897, che racconta questo intreccio crudele, insensato, tra disorientamento e stupore, riscaldato dalla potenza dell’immaginazione infantile. Anche il nostro Luca Ronconi ne trasse un fortunato spettacolo teatrale, protagonista la scomparsa Mariangela Melato che ricostruiva in flash-back la propria infanzia.
Nel trasportarlo dal démi-monde londinese di fine Ottocento alla scintillante New York odierna, i registi Scott McGehee e David Siegel ne fanno una specie di “Kramer contro Kramer” riveduto e corretto: il tutto visto dagli occhi di lei, Maisie, incarnata con disarmata e struggente freschezza dalla piccola Onata Aprile, che sullo schermo si mangia tutti e quattro gli interpreti principali, cioè Julianne Moore e Steve Coogan, Alexander Skarsgård e Joanna Vanderham.
La storia. Maisie è una ragazzina di sette anni, sveglia e sensibile, già abbigliata da donna eccentrica, pure molto adattabile, che si ritrova sballottata tra un padre e una madre divorziati: lui, Beale, un mercante d’arte inglese, anaffettivo, preso solo dai suoi capelli e dai suoi contratti; lei, Susanna, una rockstar in declino, distratta e assente, alla ricerca di affetti impossibili.
Le cose si complicano quando l’amata tata della bambina, Margo, sposa il frescone britannico; mentre Susanna si vendica andando a letto con l’atletico barman Lincoln. Solo che Margo e Lincoln, estenuati dai rispettivi compagni, finiscono col volersi bene, e durante una specie di vacanza-fuga con la bambina qualcosa cambierà davvero: per la prima volta Maisie riuscirà a difendersi dalla madre, forse a dire un no.
La lotta di classe, più o meno sotterranea nel romanzo, qui passa in secondo piano, tutti gli adulti sembrano un po’ irresponsabili, queruli, fessacchiotti, presi da altro. A pensarci bene, anche “Incompresa” di Asia Argento racconta suppergiù la stessa storia. Ma l’autobiografia spinta non basta a fare un bel film. Henry James offre qualche garanzia in più; il film di McGehee e Siegel, lungo accortamente 95 minuti per non sbrodolare e distribuito da Teodora, pure.
Michele Anselmi